Mais le vert paradis des amours enfantines, ...
Peut-on le rappeler avec des cris plantifs,
Et l'animer encor d'un voix argentine,
L'innocent paradis plein de plaisirs furtifs?

Finiva la scuola, non bisognava più alzarsi presto, non dovevo più fare quegli odiosi compiti o studiare a memoria quelle insulse poesie … potevo giocare indisturbato sulla terrazza e cinguettare con Fiammetta, la bambina vicina di casa. Ma questo verde paradiso durava soltanto poche settimane perché a fine giugno scoccava l’ora delle vacanze. E vacanze voleva dire lasciare i giochi, il sonno, Fiammetta e soprattutto l’ala protettiva della mamma; vacanze voleva dire anche lasciare Milano e lo stile di vita libero e laico della mia famiglia per approdare a Ravenna, la città delle origini e delle tradizioni che andavano rispettate. Come poteva vedere Ravenna un bambino che abitava in una grande città come Milano? Una Ravenna vissuta nei tre mesi delle vacanze estive, dove la nostalgica lontananza dalla mamma si alternava alla scoperta di un mondo diverso, a volta affascinante, a volta ostile, dove bisognava affrontare figure e situazioni nuove?

Sì, perché mio padre, con la sua professione di ingegnere aveva lasciato la provincia romagnola per un prestigioso posto di ricerca in una multinazionale milanese. Lo aveva fatto di buon grado, lui che proveniva da una famiglia patriarcale di agrari di cui non condivideva niente. A cominciare dalle gerarchie, dalla religiosità un po’ bigotta, dal culto per il “buon nome” della famiglia. Quel culto che aveva fatto sì che sua madre, per essere stata abbandonata dal marito, fuggito in Sudamerica con una ballerina, era stata emarginata, esclusa addirittura dal desco familiare e costretta a mangiare assieme alla servitù. Mio padre aveva salutato allora i vari zii monsignori, generali o badesse e aveva aspirato a pieni polmoni la libertà di una metropoli, formandosi una posizione autonoma e una sua famiglia indipendente, tagliando i ponti col passato. Al contrario, mio zio, uomo di cultura e formazione umanistica e che a Ravenna ricopriva la carica di direttore di una biblioteca, era rimasto attaccato sentimentalmente alle tradizioni e alla storia della famiglia. Viveva nel culto del nostro grande antenato, i cui ritratti occhieggiavano severamente dagli immensi stanzoni dell’appartamento della biblioteca dove abitava, e, se pure di idee progressiste (aveva partecipato alla Resistenza e per questo era stato anche arrestato), aveva mantenuto i contatti con le famiglie della nobiltà e dell’alta borghesia che amava frequentare.

Quando a fine giugno arrivavo alla stazione in compagnia delle mie sorelle (mio fratello maggiore, erede dello spirito ribelle di mio padre, si organizzava le vacanze girando l’Europa in autostop), c’era ad aspettarmi lo zio con un codazzo di professori, critici d’arte, prelati vari pieni di attenzioni, che cominciavano a chiedermi cosa avevo studiato, cosa avevo letto, ecc. Tutte domande che, nonostante le loro buone intenzioni, mi mettevano maledettamente in ansia. Appena arrivato nella biblioteca, mi aspettavano i suoi enormi stanzoni strapieni di libri giornali, riviste, mobili antichi, quadri, pendole e, soprattutto lo sguardo arcigno dell’antenato che sembrava volermi dire: “Giovanni, deve essere all’altezza della famiglia, non puoi gingillarti come gli altri bambini, devi rispettare le tradizioni, studia, studia e studia!”. Figuriamoci, io, ultimo di un fratello e due sorelle, ero il cocco di famiglia, per me la parola studio non esisteva perché i temi me li faceva la mamma, i problemi di matematica il babbo, i disegni mio fratello, le traduzioni le mie sorelle e la mia principale e quasi unica attività era giocare, giocare e giocare …

Quando si avvicinava la sera, ecco assalirmi un altro pensiero angosciante, dovevo dormire solo in un’enorme stanza arredata con austeri mobili antichi in un letto-piazza d’armi che mio zio, addirittura, diceva che fosse stato di Byron! Io, abituato a condividere la stanza e il sonno con mio fratello maggiore mi sentivo perso: non potevo tenere accesa la luce perché se lo zio se ne accorgeva mi avrebbe dato dello smidollato pauroso, non potevo sgattaiolare nella camera delle mie sorelle perché il cigolare delle porte mi avrebbe tradito. Per fortuna, dal palazzo di fronte si levava il chiacchiericcio e le esclamazioni di un bar frequentatissimo e le discussioni di politica e di sport mi tenevano compagnia fino oltre la mezzanotte. Poi era crisi nera perché, affacciandomi ad una delle finestre vedevo la tomba di Dante, dall’altra i ginepri e i sarcofaghi della piazza S. Francesco e in più ci si metteva la civetta con il suo concerto lugubre.

Rimanevo sveglio fino all’alba, quando il canto dei merli, delle cinciallegre e dei verdoni mi conciliava con la vita e mi faceva dormire fino a quando lo zio mi dava la sveglia liberatoria. Era venuto il momento di andare al mare e il viaggio sulle modernissime corriere della SITA era per me sempre un’avventura affascinante, sento ancora i profumi di pineta e di salmastro che entravano dai finestrini aperti e mentre le mie sorelle approfittavano della libertà dalla presenza occhiuta dello zio per allacciare i loro filarini estivi, io mi godevo il paesaggio, lo sciamare delle biciclette e dei motorini che la corriera sorpassava e le manovre spericolate degli autisti. Poi c’era una scritta su un capannone che aveva il sapore di mistero: “Salvat ubi lucet”, chi sa cosa voleva dire …

Il nostro “capanno” di Marina di Ravenna, uno dei più belli, verniciato ad onde azzurre e blu, era frequentato dalla Ravenna bene, perciò, anche lì dovevo tenere un certo contegno per far ben figurare la famiglia, mentre la mia più grande e gratificante occupazione era bearmi delle esili e svettanti figurine delle bambine che giocavano, con i loro costumini succinti sul bagnasciuga della spiaggia. L’idillio era però di breve durata perché alle 12.30 in punto bisognava essere compitamente assisi al desco dello zio per mangiare i cappelletti al ragù (che mi ributtavano e alcuni dei quali facevo scivolare nelle tasche) e soprattutto per rispondere alle domande inquisitorie su chi avevamo visto, cosa avevamo fatto, ecc… Al pomeriggio, obbligatoriamente, lo studio nei saloni della biblioteca: ero affascinato e al contempo intimorito da quegli armadi e scaffali polverosi e le costole dorate della Treccani e dell’Enciclopedia Britannica m’impressionavano, ma la “salvezza” era il tavolo dei rotocalchi di cui mi attiravano soprattutto le foto delle attrici “pettorute” tipo Lollobrigida e Pampanini, anche se la mia preferita era Audrey Hepburn che m’incantava per la raffinatezza del portamento e la dolcezza dello sguardo. Avevo appena visto Sabrina e l’occasionale invito in una fantastica villa di campagna di un amico dello zio mi fece rivivere in prima persona il film: viali alberati, serre, campi da tennis, uno sfarzoso salone delle feste e l’incontro con la contessina Marzia, figlia del nostro ospite, ed io che interpretavo, ovviamente, quello scavezzacollo di William Holden, con la sua romantica serata al chiaro di luna …

Ma, a parte queste dolci parentesi e i regali che facevano i fidanzatini delle mie sorelle perché chiudessi un occhio, col passare dei mesi la nostalgia mi intristiva e, facendo la giornaliera passeggiata nei viali della stazione, vagheggiavo il giorno in cui la “littorina” mi avrebbe riportato a Bologna e poi a casa. C’era però ancora un’incombenza da rispettare: la visita ai contadini con relativo pantagruelico pranzo. Per questo lo zio noleggiava una Mercedes nera con autista che ci portava nelle plaghe della “bassa” dove si trovavano i nostri poderi. Qui non c’erano problemi di bon ton e sull’enorme tavolone della casa colonica si susseguivano portate imponenti di minestre, bolliti, arrosti, zuccherini, ciambelle, in un clima di euforia contadina che mi stordiva, il tutto guastato da quelle tremende striscioline di carta appiccicaticcia che pendevano dal soffitto e dove s’impastavano nugoli di mosche.

La liberazione era correre nell’aia e nelle carrarecce inforcando una vecchia bici dei contadini e, soprattutto, avvicinarmi agli animali da cortile che a Milano si vedevano solo appesi ai ganci delle macellerie … una volta la tentazione fu grande e, aiutato nascostamente dai contadini, mi feci inscatolare un bel pulcino. Era l’ultimo ricordo dei tre mesi della vacanza ravennate, “riti di passaggio” pieni di esperienze nuove, un po’ esaltanti un po’ angoscianti, all’ombra di uno zio, allora vissuto come arcigno e severo, ma che fu per me una fondamentale figura di formazione culturale e umana. Il pulcino, poi, divenne un bel galletto che faceva inopinatamente il giro dei cornicioni dell’ultimo piano del palazzo milanese dove abitavo, finché finì sul cappellino di una passante e, poi, ahimè, nella padella dei portinai…