La natura ha sempre esercitato una forte attrattiva sugli artisti, che l'hanno osservata e imitata, cercando di catturarne la luce, l'incanto, la presunta prossimità al vero. Negli ultimi anni questo richiamo sembra essersi fatto particolarmente vigoroso presso le nuove generazioni, non tanto, o non solo, come reazione a un eccesso di Concettualismo o alla progressiva smaterializzazione dell'opera che, per contrasto, spingerebbero verso la ricerca di un sostrato forte, di qualcosa dotato di uno statuto pieno, sebbene ambiguo, come è la natura. Piuttosto è interessante notare come il concetto di natura, quale si rintraccia in alcuni giovani, si vada via via arricchendo e come stratificando di ulteriori significati generosamente offerti proprio dalla pratica artistica più recente, segnata dall'eredità di fenomeni e frequentazioni diversi: di nuovo l'Arte Concettuale, il rapporto con la tecnologia, ma soprattutto l'apertura verso orizzonti teorici in larga parte ancora inesplorati, che oggi anzi, in virtù di una preziosa indefinitezza, costituiscono il richiamo più forte.

Il lavoro di Simone Pellegrini non si sottrae a questa dinamica, sottolineandone anzi, la componente più profonda e insondabile, quello che lui definisce «organico», laddove con questo termine s'intende quel lato della natura che più ostinatamente elude il dominio della ragione, che segue leggi proprie, rimandando a un che di primigenio. Le sue figure spesso avviluppate e innocentemente fitomorfe a prima vista risultano quasi innocue ma, osservandole meglio, alludono a qualcosa che innocente, sia pure nella loro presunta naturalità, non è. Riguardate come in controluce, si delineano ambigui annodamenti, evocazioni di amplessi che alludono a un che di arcaico. Perturbanti, quindi, e quasi minacciose proprio per quella naturalità esuberante, eccedente, tipica dei segni archetipi che ancora non hanno conosciuto e non sono stati domati dalla legge della ragione. E' su questa naturalità eccedente che lavora Simone Pellegrini e in cui feconda il suo segno e il suo pensiero, ma in cui soprattutto fronteggia la vertigine che quella può spalancare.

Ma non è tutto, questa anzi è solo la prima annotazione che viene da fare, in una sorta di presunto catalogo, alla voce natura secondo Simone Pellegrini. La domanda più urgente è: a quali leggi risponde e cosa "contiene" - ammesso che questo sia il termine giusto - la sua idea di natura? Almeno questa è la domanda per me più attraente, specie dopo l'osservazione del lavoro di Simone e una lunga, coinvolgente conversazione della quale l'elemento che mi ha più colpito è stata la lucidità con cui mi ha esposto il suo complesso, decisamente non prevedibile, pensiero.
E direi che è qui la chiave di volta, in una asimmetrica corrispondenza tra l'idea di natura e il farsi corposo, sontuoso mi verrebbe da dire, del pensiero di Simone, mediato da una pazienza artigianale e dalla sfida forte incarnata dal suo lavoro. Cercherò di spiegarmi, d'essere chiara anzitutto a me stessa.

Come documentato dalla mostra presso la galleria Cardelli & Fontana, da sempre Simone Pellegrini disegna sui libri. Gli spazi bianchi del risvolto della copertina, tra le ultime note editoriali e il codice a barre, diventano i fogli del suo lavoro. Un'attitudine assai singolare che, idealmente e materialmente, prosegue nel rapporto che Simone ha con i libri stessi. Lettore decisamente forte, è uso accompagnarsi con testi diversi allo stesso tempo, che sostituisce in continuazione. E' una sorta di strategia, interpreto io, per non consegnare il proprio pensiero al pensiero dell'autore. Il percorso che intraprende insieme a quell'autore, e a quel libro, subisce una violenta sterzata e, forse nel momento culminante e dopo essersene impregnato, lo abbandona per concentrarsi su qualcos'altro. Così l'album di lavoro dell'artista si compone di vari libri, dai quali non si separa mai, salvo consumarli, nella modalità che si è appena detta, per passare ad altri. Anche le carte finali che vediamo di Simone, proposte dalla galleria Giacomo Guidi, si compongono in realtà di vari segmenti, svariati pezzi di carta strappata che lui chiama «matrici» e che usa per fissare sull'opera che noi vediamo i disegni fatti a carboncino e poi rovesciati e impressi su quella con l'aiuto di una goccia d'olio.

Come Simone aggredisce la carta dei libri con i suoi tratti, smarginando sulle pagine scritte da altri, così aggredisce la carta vergine imprimendola di segni che non risultano essere esattamente fedeli a quelli realizzati sulle matrici.
«Mi interessa la frontiera da raggiungere», spiega lui. Frontiera, parola fortemente evocativa ma anche pericolosamente ambigua che, a scioglierla meglio, vuol dire soglia di una «incognita», sfida alla «bravura», a un saper fare che è solo una «regalia della natura» verso la quale l'artista mostra una decisa insofferenza. La sfida, allora, è «stemperare la forte riconoscibilità del segno», smentire quella «bravura» quasi inutile, superflua, rispetto alla possibilità di «poter vedere il mio lavoro come se non fosse esclusivamente mio, ma come se venisse da altrove». Perché oltre quella «bravura c'è il caso», avverte Simone, «la tecnica» - aggiunge - che, interpreto io, fa sì che il caso trovi un'espressione decodificabile, consentendo di allacciare una relazione tra la raffigurazione della cosa e chi la guarda, aprendo dunque «alla visione». Consapevole però del fatto che «il segno possa non rappresentare qualcosa».

Quello che colpisce di questo percorso è la rinuncia dell'artista alla rivendicazione del proprio segno - chiamiamola anche bravura e il prodotto di questa, la matrice, che Simone programmaticamente distrugge - e il parallelo affidarsi non solo al caso, ma all'orizzonte che questo schiude: «è come se le forme si consegnassero loro stesse a una forma di riconoscibilità». Si tratta di un gesto, forse ancora prima che di un pensiero, decisamente generoso, non solo nei termini semplicistici, quasi banali, dell'affidarsi a qualcosa che non si governa e che potrebbe slittare in un sentimento romantico, evocando l'incanto di una natura sovrana e forse dispotica. In questione vi è il riconoscimento - ben più radicale - che c'è qualcosa che eccede il lavoro dell'artista, persino la sua attitudine paziente, quotidiana e forse anche ossessiva, quale spesso si incontra nella pratica di alcuni artisti. «Sono attratto da un pensiero che non mi conferma», dichiara Simone, non arrendendosi a quel qualcosa che lo eccede ma anzi sfidandolo. Volendolo penetrare, ma solo per farne parte.

E' di questo qualcosa che si va alla ricerca, lo fanno gli artisti ma anche chi artista non è. Lo facciamo tutti, nel tentativo, eroico o disperato, di disegnare e inventare il «nostro paesaggio». Quello che Simone definisce «raffigurazione della cosa» - che per lui comincia dai disegni sui libri e da qui, con un gesto quasi demiurgico, passa alla carta strappata e poi a quella ricomposta del calco che vediamo - consente «un allargamento dell'orizzonte». E' un processo - perché di una singolare processualità si tratta - che può fornire »delle nuove eventualità dell'essere», disegnando quel «paesaggio» dove protagonista è «l'organico» cui abbiamo accennato poco fa.

Ma, come in una sorta di circolarità ermeneutica, dopo aver seguito questo percorso, torniamo al punto di partenza, a quella natura dove «l'organico» semplicemente apre a qualcosa che è oltre la natura stessa e che assume le sembianze del sacro. Parola importante, che Simone non ha paura a pronunciare. Espressione - se così si può dire - di quella parte che ci eccede, di cui si va alla ricerca e che Simone non ha paura a mettere in gioco. «Credo che la natura sia tutto, niente esce dal suo dominio e niente vi entra perché già tutto comprende», afferma lui, rinunciando davvero al primato dell'essere artista, a quella capacità poietica che distingue l'arte da altre pratiche. «Destino il mio pensiero alla natura come una cabalista lo destinerebbe a Dio», aggiunge Simone.
Quello che convenzionalmente si definisce il fare dell'artista per Simone è disvelare, quello che normalmente si ritiene creato, per lui è stato semplicemente configurato. Come sostiene Hans Georg Gadamer, l'opera è sì una forma di conoscenza, la chiave di accesso alla verità più profonda delle cose, ma solo perché - occorre sottolineare - partecipa, già-da-sempre-è in un'apertura originaria che la eccede e che per questo ne permette il senso.

Di nuovo ci viene in soccorso Gadamer per esprimere questa circolarità tra l'opera e il suo riconoscimento e l'orizzonte, o forse la vertigine, in cui questa delicata, preziosa relazione, questa sorta di miracolo che è l'arte, prendono corpo: «Ciò che propriamente si sperimenta in un'opera d'arte, ciò che in essa attrae la nostra attenzione, non è piuttosto il suo essere o no vera, il fatto cioè che chi la contempla possa conoscere e riconoscere in essa qualcosa e, insieme, se stesso. Che cosa sia il riconoscimento, nella sua essenza più profonda, non lo si capisce se ci si limita a osservare che in esso viene conosciuto di nuovo qualcosa che già si conosce, che il conosciuto viene riconosciuto. Il piacere del riconoscimento consiste piuttosto nel fatto che in esso si conosce più di ciò che già si conosceva. Nel riconoscimento la cosa conosciuta emerge, per così dire, come attraverso una nuova illuminazione, dalla casualità e dalla variabilità delle condizioni in cui in genere è sommersa, e viene colta nella sua essenza».

In questo testo, "Verità e metodo", l'attenzione di Gadamer era rivolta alla letteratura, ma quel di più si attaglia perfettamente all'origine e all'esito entrambi, sebbene non ugualmente misteriosi, dell'arte e con i quali Simone intraprende il suo corpo a corpo. Un «paesaggio umano», come suggerisce lui, fatto dall'uomo e, al tempo stesso, al di là dell'uomo. Dove la pietas dell'artista li affida alla sensibilità e alla memoria di altri uomini. E dove la natura, l'idea di natura di Simone, incontra il sacro.

Testo di Adriana Polveroni