C’è un problema generale, di ingannevole apparenza, nella società in cui stiamo vivendo, quella del terzo millennio, o dei social media, o dell’apparire anziché dell’essere: definitela voi come volete. È un dato di fatto come oramai l’apparenza sia divenuta più importante dell’essere.

In passato dei buoni scrittori ci avvertivano sul pericolo che la deriva della società stesse portandoci a privilegiare l’avere piuttosto che l’essere. Questi apprezzabili e intelligenti scrittori, filosofi, sociologi, giornalisti di costume e antropologi, ancora non avevano conosciuto la nuova frontiera della Rete e dei social media, la nuova realtà, cosiddetta virtuale, dove ciò che sembra contare è soprattutto ciò che appare, anche se spesso questa apparenza virtuale, contiene soltanto una parziale verità, quando essa, addirittura, non la dissimula completamente, essendo non altro che una fake, un inganno, una verità costruita ad arte per dissimulare la realtà e ingannare i suoi percettori.

Qualcuno di questi scrittori aveva intuito il pericolo già negli anni Ottanta del secolo scorso, quando la televisione commerciale, aggiungendosi a quella di stato, iniziò a coprire degli spazi troppo ampi, non soltanto nell’etere, divenendo veramente invasiva della vita privata delle persone.

Oggi la diffusione capillare della rete e il moltiplicarsi dei social media, soprattutto tra i giovani, ha reso concreto il problema della formazione e dell’informazione. Da più parti, giustamente, si è posto il problema dell’influenza di questi mezzi d’informazione e del potere invasivo e pervasivo dei nuovi social.

Alcuni osservatori, forse interessati a sminuire l’impatto di questi mezzi nella vita delle persone, hanno spiegato come i social media non abbiano fatto altro che sostituire le televisioni, così come queste ultime avevano preso il posto dei giornali prima e della radio poi; per concludere infine, con serafica e biblica rassegnazione, che niente c’è di nuovo sotto il sole e che tutto è vanità delle vanità.

Ma non è così. Chi lo sostiene, o è in mala fede oppure è una persona che non ha capito niente su come si sia evoluto il mondo dell’informazione negli ultimi ottanta anni.

Già uno scrittore profetico come George Orwell, negli anni Quaranta del secolo scorso, aveva prefigurato una società mediocratica, al cui controllo tutti avremmo dovuto, volenti o nolenti, soggiacere.

Anche perché oggi, a differenza di ieri, quando erano i giornali e le televisioni, a dettare l’agenda del mondo delle notizie, si è raggiunta nel mondo quasi una totale alfabetizzazione e tutti, o quasi tutti, gli abitanti della terra sono capaci di leggere e scrivere, potendo quindi attingere in pieno alle fonti di informazione. E in aggiunta al fenomeno della alfabetizzazione delle masse, occorre considerare che i social hanno reso e rendono possibile la creazione di contenuti a tutti quanti. Questo significa che nella rete vi è un flusso incontrollato e incontrollabile di informazioni che espone i soggetti più fragili, da un punto di vista della preparazione culturale, all’aggressione culturale degli squali dell’informazione.

Si consideri ancora che questi soggetti sono in genere degli elettori, persone cioè che vanno a votare e ad esprimere una preferenza politica. E molto spesso si tratta di una scelta che viene posta in termini di opzione chiusa: “sì” oppure “no”; “bianco o nero”; “partito X oppure partito Y”, prendere o lasciare.

Non è superfluo che io richiami alla mente le recenti esperienze delle ultime elezioni presidenziali USA e della vicenda Brexit, dove una società di un primario gruppo social, la Cambridge Analytica, è riuscita a spostare, dietro pagamento da parte di committenti interessati, milioni di voti, alterando di fatto i risultati elettorali (anche se qualcuno dice che ogni popolo, in fondo, ha il governo che si merita; e che questi elettori, tutto sommato, hanno finito per votare la verità in cui, seppure con la pancia, essi credono).

Ma il problema qui è proprio il voto fatto con la pancia e non opportunamente filtrato dal cervello. Tanto ciò è vero che molti di quelli che hanno votato, in Gran Bretagna, per il leave, sarebbero stati pronti, il giorno dopo, a votare per il remain, sostenendo di essere stati ingannati dalle false informazioni apparse e lette in Rete.

L’argomento, come si vede, è davvero molto vasto e complesso e si rischia facilmente di andare fuori tema.

In questo scritto, però, mi preme evidenziare come sia abbastanza facile, per chi sappia utilizzare a suo piacimento dei mezzi di comunicazione, convincere dei lettori frettolosi e superficiali, di quello che si crede opportuno e conveniente fare credere.

Il teatrino della politica, al quale stiamo assistendo da molti, troppi anni, in materia di immigrazione, mi ricorda, in una certa misura, le rappresentazioni che facevano certe pellicole americane degli anni Sessanta, sulla rivalità che vedeva opposti i buoni e prodi americani, ai selvaggi e cattivi Indiani d’America, ben prima che questi venissero rivalutati da un cinema più attento e intelligente, sulle ali dei grossi sensi di colpa che hanno fatto emergere le loro ragioni, al di là delle apparenze.

Ebbene, in questi film dozzinali della mia infanzia, gli Indiani venivano rappresentati come dei selvaggi idolatri, aggressivi, sporchi e inaffidabili, mentre gli americani erano “i nostri”, i giusti, quelli che intervenivano al momento giusto per rimettere le cose a posto.

Era facile per noi bambini identificarci e solidarizzare con i cowboys e con i soldati americani e, di conseguenza, schierarci contro gli Indiani.

Cosa non può distorcere, la rappresentazione di una verità voluta, ancorché fallace e fuorviante, nella mente semplice di un ingenuo ragazzo? Che cosa c’era che non andava in quelle rappresentazioni filmate hollywoodiane? È molto agevole rispondere: esse ricreavano una situazione, immediata e contingente, in cui era facile leggere da che parte stesse il torto e da quale la ragione.

Era sufficiente, a titolo d’esempio, mostrare degli Indiani ululanti e rabbiosi, in assetto di guerra, incendiare un forte, assalire dei coloni, rapire o, peggio, uccidere, con selvaggia ferocia delle donne e dei bambini inermi, per scatenare nello spettatore ingenuo e impreparato lo sdegno e il desiderio di un intervento riparatore.

Lo stesso accade, se ci badate, nell’odierno teatrino della politica, in materia di immigrazione, anche se la rappresentazione è assai più sfumata e complessa.

Lo schema di base, tuttavia, è identico: nella rappresentazione di una certa parte politica, ci vogliono mostrare da un lato gli invasori, i cattivoni, i selvaggi; dall’altro ci sono “i nostri”, i salvatori, i giusti.

I politici di parte avversa, nella loro rappresentazione, utilizzano lo stesso schema: da un lato ci mostrano i cattivoni libici, nigeriani o tunisini, quelli dei campi di concentramento, che si accaniscono contro gli inermi migranti; dall’altro ci sono loro, i rescuers, i nuovi salvatori della patria, le ONG filantrope che salvano gli inermi dalle grinfie del mare malvagio.

Entrambe le rappresentazioni sono fallaci e ingannevoli, anche se possono contenere, se non altro, qualche verità contingente.

Il loro inganno, la loro fallacia sta nella parzialità della rappresentazione; rappresentano, cioè, soltanto un segmento di verità, estrapolato dalla totalità del problema, dalle radici, dalla realtà più complessa e globale.

A seconda del suo orientamento politico, l’ingenuo spettatore non può non schierarsi con i buoni di turno.

Così è automatico per uno di sinistra, schierarsi con le ONG contro gli aguzzini del mare e i trafficanti di uomini; e per uno di destra non ci sono dubbi che occorra impedire agli invasori neri (pakistani invaders li chiamava qualcuno a Londra, tempo fa), di insediarsi in Italia, con le loro credenze esotiche e le loro consuetudini antieuropee e anticristiane. Ma dalle rappresentazioni semplicistiche, parziali e superficiali, alle quali non è estranea certamente un’informazione televisiva sbrigativa e sommaria, non emergono gli esatti e netti contorni della realtà.

Per esempio: ma chi ha portato questi disperati in Libia o in Tunisia, attraverso la Nigeria? E perché? Se l’Italia e l’Europa hanno bisogno di manodopera e di operai per le loro campagne e per le loro industrie, non ci sono altre vie per fare arrivare soltanto quelli di cui si ha veramente bisogno e le loro famiglie? E che ce ne sia bisogno, non c’è dubbio; la stessa destra di Berlusconi e Bossi, fece anni fa un condono per 600.000 clandestini già inseriti come operai nelle industrie del Nord, su pressione dei loro sodali di Confindustria.

E ancora: queste ONG, cosa ci guadagnano a pattugliare il mare in cerca di naufraghi da salvare? Chi sono? Chi paga la loro organizzazione? E perché? Non è detto, intendiamoci, che abbiano qualcosa da nascondere, ma credo che un’informazione scrupolosa e completa dovrebbe interessarsene e penso che l’opinione abbia il diritto di sapere qualcosa di più, su questi eroi del mare (sempre che siano tali), da chi vengono finanziate e perché.

Per concludere, una domanda mi sorge spontanea: ma davvero dobbiamo prendercela con questi poveri disgraziati e non, invece, con i governanti dei diversi stati del mondo (in primis quelli italiani) per questa terribile situazione, che ci obbliga ad assistere, quotidianamente, alla morte di persone innocenti e perfino di bambini indifesi?

E poi mi piacerebbe chiedere: dove sono le ricchezze prodotte dalle risorse naturali dell’Africa? Dove sono i profitti delle industrie delocalizzate dall’Europa e insediate in Africa e in Asia?

E i profitti della globalizzazione chi se li sta incamerando?

E infine (per non tirarla troppo alle lunghe): ma il nostro dovere di salvare le vite umane, si limita a quei disperati che hanno la forza e i soldi per incamminarsi e imbarcarsi verso le nostre coste? E gli altri? Quelli che rimangono a morire di stenti e di guerra in Africa? Quelli non contano? Nessuno vuole capire che gli immigrati che approdano nelle nostre coste sono soltanto la punta di un iceberg?

Insomma, fermo restando il dovere di salvare le vite umane, siano esse in mare, siano esse inchiodate in Africa o in Asia, o dovunque si soffra e si muoia a causa di guerre e carestie, io mi rifiuto di parteggiare per gli Indiani o per i cowboys e pretendo una visione più ampia e completa del problema.

È troppo chiedere ai nostri politici e ai mezzi di informazione che essi controllano di fare chiarezza?