A giugno 2023 Sophie Chassat ha pubblicato un piccolo saggio di trenta pagine dal titolo Complexité. Critique d’une Idéologie Contemporaine. Mi occupo di sistemi adattivi complessi da quarant’anni e ho trovato sempre più interessante leggere i detrattori del pensiero complesso che i sostenitori. Questi ultimi difficilmente propongono qualcosa di nuovo, mentre i detrattori aiutano a chiarire le idee, segnalando i punti deboli delle tue convinzioni.

La ‘complessità’, secondo la Chassat, da idea fertile è finita per diventare un dogma e una pseudoscienza, sostenendo che i fenomeni del nostro mondo sono ingarbugliati e contraddittori, non decomponibili in entità elementari, né decifrabili mediante relazioni lineari. Esempi di come sia fuorviante il pensiero complesso sono ‘il principio ologrammatico’, secondo cui ogni parte contiene il tutto, il “principio di causalità circolare”, secondo cui l’effetto di ogni azione rimbalza con una retroazione sulla causa che l’ha generato, e il “principio dell’interdipendenza”, secondo cui ogni evento è connesso con tutti gli altri.

Il frutto avvelenato della complessità è l’inazione e il disimpegno. Poiché la complessità non permette di individuare una leva su cui agire, né conoscere l’effetto delle proprie azioni, è meglio non fare niente. Insomma, la retorica della complessità ci condanna alla paralisi e offre una comoda e dotta giustificazione ai soggetti economici e ai gruppi sociali che non hanno interesse ad affrontare seriamente problemi difficili come la crisi climatica, la povertà, le migrazioni, le diseguaglianze, ecc. La Chassat conclude che «l’ideologia della complessità finisce per incoraggiare lo scetticismo, l’equivalenza delle opinioni, il relativismo epistemologico, culturale e morale – tutti i difetti dell’era della ‘post-verità’ che ha contribuito a creare». La complessità non è una proprietà oggettiva del mondo, ma è solo il sintomo del nostro ‘disordine mentale’, della incapacità di comprendere le regole semplici che ‘organizzano’ ciò che appare complesso: «Chiamiamo questa confusione complessità. Questo non ci dice nulla del mondo, ma piuttosto del nostro caos mentale».

Nella seconda parte del saggio la Chassat passa dall’analisi alla proposta. La soluzione che propone è un salutare ‘shock da semplificazione’: «per vivere, dobbiamo agire e quindi semplificare continuamente». Ciò che va fatto è tagliare il nodo gordiano della complessità in tre passaggi:

  1. affrontare i problemi uno alla volta;
  2. scegliere un obiettivo;
  3. agire con decisione.

Insomma, afferma la Chassat, invece di perdere tempo nella palude della complessità del presente, alziamo la testa verso un traguardo futuro e dirigiamoci senza indugi verso di esso. L’azione è la sola risposta alla complessità.

Non è possibile liquidare sbrigativamente la critica della Chassat. Mi limiterò a una prima riflessione, con l’obiettivo di riprendere il discorso in una prossima nota. La critica alla complessità come ideologia è facilmente accettabile. Non c’è alcun dubbio che i principi della complessità, presi come assiomi generali, fuori dal contesto entro cui sono definiti, e senza le infinite cautele delle affermazioni scientifiche, si trasformino in una deleteria ideologia, che, nel migliore dei casi è vacua filosofia New Age, nel peggiore è giustificazione del laissez-faire. Quindi, fa bene la Chassat a metterci in guardia contro la deformazione ideologica del pensiero complesso. In realtà, bisognerebbe sempre dubitare delle ideologie che trasformano credenze e conoscenze in verità assolute da imporre a tutti. È così che le religioni, in nome del vero dio, diventano ideologie di potere e di sterminio; è così che la supremazia tecnologica dell’Occidente diventa l’ideologia imperialistica del “fardello dell’uomo bianco” costretto a portare la civiltà in tutti gli angoli del mondo; è così che il principio di eguaglianza delle utopie socialiste prende le forme aberranti della ideologia statalista sovietica.

Se c’è un appunto da fare alla Chassat è di non riuscire a distinguere i principi del pensiero complesso dall’uso ideologico che spesso ne viene fatto. L'autrice commette lo stesso errore di chi, condannando lo sterminio delle popolazioni del Nuovo Mondo operato dai cattolicissimi re spagnoli in nome del Vero Dio, includesse nella condanna anche il messaggio evangelico dell’amore universale. Mi rendo conto che è più facile includere che distinguere. La distinzione richiede una conoscenza approfondita delle radici scientifiche del pensiero complesso e dei suoi aspetti problematici, mentre per liquidare il nemico è sufficiente raccogliere un po’ di definizioni fuori contesto ed estremizzarle fino a renderle ridicole o paradossali. Come ad esempio, affermare, senza alcuna dimostrazione, che il pensiero complesso è nemico della semplicità e spinge alla deresponsabilizzazione e all’inazione.

Non c’è dubbio che il tentativo di venire a capo di una situazione complessa mediante l’analisi possa diventare una trappola, e che non bisogna indugiare per pervenire a certezze impossibili per passare all’azione. La pensava così anche Karl Marx, quando nel Manifesto del Partito Comunista scrisse: «I filosofi hanno finora variamente interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di trasformarlo». Confessiamolo, l’uomo d’azione e decisionista ha il suo fascino. L’eroe dei film d’avventura e dei western è un uomo pratico che vive nell’azione. È il prototipo del vincente. Quante volte ho ascoltato manager e politici accusare gli intellettuali di sollevare inutili dubbi e gli scienziati di essere troppo cauti nelle proprie dichiarazioni. Anche i miei studenti talvolta mi dicevano che i corsi universitari erano troppo teorici e poco pratici. Il problema sta nel fatto che anche l’azione più spontanea non nasce dal nulla. Dietro ci sono sempre credenze, valori, conoscenze, teorie selezionate dalle esperienze. Spesso diventano abitudini, guide implicite, che non riusciamo più a riconoscere quando e come agiscono. Ricordo il caso di un direttore editoriale di una nota rivista di New York, che lessi quando, molti anni fa, mi appassionai alle applicazioni delle scienze cognitive al management. Il direttore era prossimo alla pensione e gli fu richiesto di scrivere per il successore un memorandum su come impaginava le notizie. Dopo qualche inutile tentativo si arrese, sostenendo che le sue erano decisioni intuitive, non riconducibili a regole. La direzione dell’azienda, ben consigliata, gli affiancò un antropologo per alcune settimane. Il metodo dell’antropologia è quello di osservare i comportamenti, individuare le azioni ricorrenti, dedurre, anche attraverso interviste, le teorie sottostanti. Quando il direttore prendeva la decisione di spostare la notizia di un funerale nella pagina successiva, l’antropologo a bruciapelo gli chiedeva “perché?”, e il direttore rispondeva «non metto sulla stessa pagina una notizia positiva insieme a una negativa perché sono emotivamente contrastanti. I nostri lettori vogliono un approccio soft alla lettura». Ecco il dunque. Il direttore, in anni di esperienza, aveva messo a punto una super-regola che potremmo chiamare “Teoria del lettore della mia rivista”, da cui di volta in volta deduceva le azioni appropriate. Tale teoria era così radicata che non era visibile neanche al possessore.

La visione meccanicistica del mondo dopo alcuni secoli è divenuta così pervasiva da diventare invisibile. Agisce silenziosamente come la ‘teoria del lettore’ del direttore editoriale. L’obiettivo, sicuramente ambizioso, del pensiero complesso, è mostrarci, mediante modelli matematici, osservazioni scientifiche e sintesi filosofiche (che costituiscono nel loro insieme la Teoria della Complessità), la possibilità di guardare il mondo in modo diverso. Ciò che la teoria della complessità vuole abolire non è la semplicità e l’azione, ma l’idea che l’homo sapiens, chiamatosi fuori dalla Natura e proclamatosi diverso e superiore ad essa, si senta legittimato a controllarla e dominarla. Ciò che la teoria della complessità vuole abolire non sono le conquiste intellettuali e tecniche del metodo scientifico messo a punto da Cartesio, Galileo e Newton, ma la pretesa che quel metodo sia assoluto. Il pensiero complesso vuole allargare lo sguardo, suggerendoci che le ipotesi su cui quel metodo si fonda non sono sufficienti per comprendere la “Rete della Vita” di cui facciamo parte. Sarebbe un errore madornale rigettarle in blocco in nome di una ideologia ‘complessista’. Ma sarebbe ugualmente ingenuo pensarle definitive e abbracciare una opposta ideologia scientista. Ciò che oggi siamo chiamati a fare è definire i confini del campo di azione della scienza e la tecnica come l’abbiamo conosciuta fino ad ora. Distinguere ciò che è possibile da ciò che è impossibile. Solo così potremmo continuare a godere dei benefici che ci procurano, e limitare o annullare gli effetti perversi che esse generano. A questo serve la complessità, a definire i confini del meccanicismo e a gettare lo sguardo sul nuovo mondo che sta oltre quei confini.