La pittura di Alessandro Russo mi ha sempre emozionato e appassionato. Come sia possibile creare dei mondi con poche pennellate resta per noi profani sempre un bel mistero, che intatto come tale vogliamo contemplare. Entrare nel suo studio è a sua volta sempre una nuova emozione a cui non ci si abitua mai. Un luogo vissuto e vivente fatto di ordine e caos coabitanti. Difficile poter fermare lo sguardo in una tale ricchezza di opere, strumenti, libri, quadri, oggetti da una vita compendiati che sembrano respirare, irradiare tracce ma pur palpitare proiettanti verso il futuro. I cieli metafisici di Alessandro, le sue infinite declinazioni dei grigi. i grattacieli di Milano colti come sorprendendoli in sguardi inediti dove nessuno recita. Lo stesso “Bosco verticale” viene salvato dalla retorica del “già visto” e sorpreso liberandolo dalla propria reificazione immaginale tramite un sapiente e sottile equilibro fra rarefazione e condensazione delle linee spaziotemporali che solo Alessandro sa raggiungere e trasmettere sotto un apparente velo di impersonalità. Il primo quadro che vedo mostra a sorpresa proprio l’immagine più “da cartolina”: il Duomo. Immagine che Alessandro riesce straordinariamente a ri-generare, vincendo una non facile sfida.

Il Duomo di Milano come cantiere, come fabbrica, rendi vive rappresentazioni usurate, difficilissime da riprodurre nell’arte proprio in quanto immagini abusate a livello di comunicazione di massa, eppure tu le ripresenti nuove, fresche, differenti. Con poche pennellate rinasce questo Duomo, come per la prima volta, e ce lo restituisci liberato dalla rigidezza di uno stereotipo.

E’ tutta la mia opera, un cantiere e i dipinti sono declinazioni di cantieri. Vicino al Duomo c’è una grù. Il Duomo è una tensione ascensionale, che s’incontra con il piano veloce della piazza. E questa porto di Tunisi ti piace?

Si. Ma è abbandonato o vivo? Quest’ambiguità mi piace, tra incanto e disincanto. Incertezza che genera liricità. Vitalità e caos. Velocità e contemplazione.

E’un cantiere abbandonato, come in quasi tutte le mie opere. E’ una storia simile a quella delle grandi fabbriche italiane abbandonate. Il tema della de-industrializzazione è universale, attraversa tutti i luoghi. Le mie opere di alcuni anni fa dedicate a Marghera mostrano un cielo violento, rosso, agitato. Ora invece i miei cieli son bianchi, non li dipingo più.

Anche qui non si comprende se l’impianto industriale sia abbandonato o vivo.

E’ abbandonato e vivo. Qualcosa funziona ma dentro la distruzione. E’ un processo in corso ma distruttivo. Il mio post-industriale manifesta proprio questo: la distruzione dell’ambiente, dell’umanità e la delusione dei molti che hanno pensato che con l’industrializzazione avrebbero risolti i problemi per secoli, per decine di generazioni e invece è accaduto drammaticamente l’imprevisto. I grandi problemi sociali non sono stati risolti neppure per tre generazioni. Distrutti spazi ambientali stupendi, a Marghera, Piombino, Crotone, Siracusa e molti altri luoghi magnifici, ora tutti questi siti industriali sono fermi.

Tu sei stato profeta di quest’abbandono.

Io lo dipingo da più di vent’anni. Già ne parlavo pittoricamente quando dipingevo “I comizi”, con le mie versioni artistiche del circo umano della comunicazione politica.

Tu però riesci a metterci in questa denuncia comunque una poesia, un pathos, un senso quasi epico, nobile, fiero, trasfigurando il senso di desolazione innato. Riesci come a ridar vita ad un genius loci pur insito in un non-luogo del disincanto e della sconfitta.

Io vengo dai quadri ironici, graffianti sui temi politico-sociali e quando ho iniziato a dipingere paesaggi e ambienti post-industriali mi dicevano: sei cambiato, sei un altro pittore, mentre invece erano cambiati i soggetti ma non i linguaggi pittorici. Dopo gli uomini, che mostro come maschere animali, nella loro involuzione disumanizzante, ora mostra ciò che quegli uomini hanno prodotto distruttivamente. Ho messo in scena la loro operatività. E ora dobbiamo bonificare quest’ambiente devastato e ci vorranno chissà quanti decenni ancora.

Nonostante la crudezza dei temi visivi-ideativi si sente la grande vitalità della tua pittura.

Sì, la mia è una pittura viva, proprio in quanto strutturata, grammaticale. Non è una pittura improvvisata. Qualsiasi cosa rappresenti c’è il temperamento di un pittore, la semantica del segno. Marco Meneguzzo di me scrive che io “non ho tecnica, ma sono padrone della tecnica” pittorica. L’artista deve possedere la sua lingua e la sua materia.

Questa tua opera, questo ritratto del Direttore della Fondazione Mimmo Rotella Piero Mascitti mostra chiaramente l’efficacia profonda della tua abilità pittorica, proprio nella sua capacità di comunicazione lirica. Con tratti veloci e sobri condensi una grande espressività e un senso di libertà e creatività che è anche lo spirito di questa persona, la sua anima artistica. Per trovare un simile effetto fisico di immediatezza poetica, guizzante, cruda, occorre andare a Francis Bacon, ad Aligi Sassu, a Otto Dix e a Marlene Dumàs. In questo ritratto cogli la singolarità assoluta di questo soggetto e nel contempo ne fai immagine ampia, universalizzata.

I miei cieli di luoghi industriali devastanti sono colorati, vivi, animati, e mantengono un senso poetico e romantico, anche perché la mia prima formazione pittorica è passata attraverso la pittura francese, da Theodore Gericault all’Impressionismo. Ho fatto un quadro per il Ministero delle Finanze che richiama il tema della “zattera della Medusa”, anticipando di molti anni lo sbocciare massivo del tema dell’immigrazione clandestina.

Amo molto queste due opere più datate dove compaiono complessi figurazionali articolati, dove la figura umana si mescola al simulacro ma tutto vibra organicamente grazie ai tuoi colori accesi e ai tratti elettrici. Complessi emblematici, monumentali che mi ricordano De Chirico e Sironi. Si apprezza un’impronta classico-magica dove il caricaturale si congiunge all’ancestrale, all’antico.

Si trattava di opere che celebravano beni culturali recuperati ma gli impianti compositivi sono molto complessi, come in “Scena ludica per il commercio” e nel “Vescovo/Centauro” sono tratti da un vissuto integrale come De Chirico trasse la grecità dalla sua terra d’origine. Si tratta di fattori compositivi che ritengo necessari per l’opera Io cambio sempre i soggetti ma sono sempre riconoscibile, anche quando divenni aniconico per Achille Bonito Oliva in opere quasi astratte dove aggiunsi elementi fisici, industriali-oggettuali. Ma è sempre una pittura fatta di racconti, sempre la mia cifra. Non esco da un’originalità creativa molto personale. Opere queste che parteciparono al progetto Recovery Art, dedicato ad una vecchia cartiera di Milano che si era trasformata in uno spazio residenziale di lusso. La Soprintendenza aveva emanato delle prescrizioni e quindi occorreva mantenere traccia della storia del sito e allora inserii alcuni oggetti industriali che erano stati preservati trasformandoli in elementi strutturali della composizione pittorica. Ho creato così una continuità tra il pop e il post-industriale, mescolando oggetti dipinti con oggetti dal vero, crudi o ridipinti, fino a renderne non facile la distinzione.

Tu giochi molto nell’intrecciare il senso di una spontaneità primigenia, anche primitiva, con la disinvoltura dell’artificio, dell’invenzione intellettuale.

Sono un istintivo fino ad un certo punto. Ho studiato pittura da quando avevo dieci anni. La pittura è un linguaggio che non si può improvvisare ma la sfida è mantenere, dentro la tecnica, quello spirito di spontaneità e originalità istintiva che possiamo continuare a vivere.

Che ci dici delle tue ultime opere dipinte su lamiera?

Venni a Milano negli ani 80, appena finita l’Accademia e poi ci sono tornato nel 2006. Vidi quindi il cambiamento dei cantieri di Milano, ora verticalizzanti, neo-futuristi, come nella Città che sale di Boccioni. Per la prima volta il concetto di grattacielo è entrato in Italia. Solo pochi anni fa abbiamo avuto quindi una radicale riconfigurazione del tessuto urbano milanese, oltre il Novecento. Spesso non ce ne rendiamo conto. Ho quindi seguito proprio questa rinascita di Milano nel segno dei suoi cantieri, e del suo porsi come “cantiere” del futuro. La lamiera è la mia curiosità di sperimentare nuovi supporti, stimolato da una nuova commissione. Ho sempre apprezzato lo stimolo dialettico dato dai vincoli di una commissione, così è sempre stato nella storia dell’arte e ho sempre apprezzato anche il discorso della reazione del supporto alla pittura e al suo impatto percettivo. Queste lamiere usate come tele riflettono l’ambiente circostante e così il mio quadro si arricchisce di aspetti nuovi, di valori relazionali aggiuntivi. Mi affascina essere creativo dentro i condizionamenti di una committenza, avendo anche molta esperienza di committenza pubblica. E’ una continua sfida.

In che situazione socio-economica si trova oggi l’arte in Italia?

Nonostante abbia molti collezionisti avendo avuto esperienze all’estero, anche in Cina, non posso non sottolineare l’arretratezza e la limitatezza del mercato italiano. All’estero non ci sono pittori migliori di noi ma c’è un’industria dell’arte per noi neppure concepibile e che fà da forte traino alla creazione artistica. Per cui quando acquisti un’opera acquisti anche il valore di un sistema. Il mercato italiano è stato svuotato e svilito dalla stessa sfrenata ricerca avanguardistica che ha puntato tutto sull’invenzione stilistica e non più sulla tecnica e sulle capacità pittoriche. Ogni genio dell’avanguardia, come Duchamp ad esempio, ha creato nuovi scenari artistici ma ha generato indirettamente anche effetti distruttivi. Oggi tutti pensano di potersi improvvisare pittori, con qualsiasi mezzo. Ma chi non possiede gli strumenti grammaticali come fa a scrivere? Ci sono quindi pittori che dipingono senza possedere la tecnica e il linguaggio pittorico. Lo stesso Achille Bonito Oliva che è stato straordinario nel suscitare interesse sull’arte italiana ma i suoi pittori non si sono comunque elevati tecnicamente oltre il livello generalista, di massa. Poi ci lamentiamo se molti si allontanano dall’arte. Noi italiani che abbiamo nel nostro dna la grande arte non possiamo essere attratti nel profondo da ciò che non capiamo. L’Italia ha dovuto adattarsi ad esigenze di mercato, appiattendosi, e così dimenticando importanti esigenze artistiche e linguistiche. Sento però oggi un nuovo crescente apprezzamento di una pittura più in continuità con la propria storia. Occorre andare avanti così, verso una maggiore sincronia fra tecnica, sensibilità, ambiente e decorso storico.