La condizione di reattività nella quale inevitabilmente il mondo viene a trovarsi a causa dell'attacco della Russia all'Ucraina è mosso dal diritto di ogni Stato libero a rimanere tale e dal dovere degli altri Stati a sostenere chi chiede aiuto perchè questo diritto gli viene sottratto prepotentemente e violentemente da un Paese aggressore.

Il concetto di guerra inteso nel suo senso comune, dopo l'esperienza del secondo conflitto mondiale, inorridisce e rende palese oramai che per le mire politiche ed economiche di qualcuno ne pagano con la vita milioni di persone innocenti. Credendo che l'umanità avesse imparato la sanguinosa lezione, nessuno mai si sarebbe aspettato una recrudescenza di odio verso “gli Atlantici” evidentemente mai sopito dopo la fine della Guerra Fredda, ma subito riaccesosi nel pretesto dato dalla volontà dell'Ucraina a voler entrare nell'Europa, ed inoltre sfruttando la generale debolezza economica ed umana mondiale derivata da due anni di pandemia. Un attacco cattivo, inutile, vigliacco, disumano.

Per contro, i Paesi “culturalmente evoluti” stanno dando prova di condurre una guerra difensiva altra a sostegno dell'Ucraina, rispetto al canonico rispondere con le armi alle armi.

Una guerra nella quale il blocco economico e finanziario contro la Russia è coordinato e mondiale, seppure abbia tempi di effetti più lenti rispetto alle vite che invece si perdono ad ogni bombardamento, ad ogni colpo di fucile, ad ogni mina saltata, ad ogni offensiva dei carri armati.

Ci sono già tutti i presupposti per definirla guerra mondiale, e questo oltre a creare nuove angosce per gli esiti ancor più nefasti che un terzo conflitto bellico significhi, porta alla mente l'ultimo, e ricorda come l'Italia impreparata sotto ogni punto di vista si pose ad affrontarlo, con tutti i limiti che consapevoli avevamo, dalla formazione degli uomini all'economia, dal problema delle materie prime a come far funzionare i mezzi militari nonché le fabbriche e garantire servizi essenziali per la vita delle persone.

La crisi alla fine della Prima guerra mondiale e la Grande Depressione dopo, nel 1929, fecero sentire gli effetti in Italia in modo evidente dal 1933, in più la guerra coloniale contro l'Etiopia del '36 provocò da parte della Società delle Nazioni, nata appositamente nel 1920 per sorvegliare e garantire lo stato di pace raggiunto, una serie di sanzioni pesanti che posero il nostro Paese a mettere in pratica quel nazionalismo del provvedere a se stessa in ogni settore, che era stato tanto reclamizzato.

L'Italia doveva rendersi autonoma pertanto ovviare al blocco delle importazioni imposte a sanzione di Paese belligerante, attraverso la promozione di studi scientifici e tecnici volti allo sfruttamento più ampio possibile delle risorse nazionali, in particolare rivolto alla ricerca nel campo dei combustibili.

Questa necessità trovò un ampio bacino di studi e di orientamenti, il governo chiese aiuto al CNR ed ai suoi scienziati, che indirizzarono più che verso la ricerca di nuovi giacimenti, sulla produzione di un combustibile “nazionale” ossia un combustibile succedaneo a quelli che fino ad allora venivano importati, questo fu identificato con l'alcool etilico, l'etanolo o bioetanolo che poteva essere ricavato dal processo di fermentazione delle biomasse vegetali o scarti di produzioni agresti, di entrambe le quali la nazione era ricca data la sua vocazione agricola. Altre indicazioni portavano invece allo studio di uno sfruttamento ottimale dei giacimenti fossili oppure erano indirizzati alla ricerca del petrolio e dei gas naturali nel sottosuolo, in particolare del metano che si scoprì essere in notevoli quantità, oppure verso la gassificazione dei legnami. Il più grande studioso dei combustibili nazionali fu Mario Giacomo Levi, professore a Bologna ed al Politecnico di Milano in veste di direttore della Sezione combustibili.

Approfondito fu lo studio per la realizzazione di gassogeno per autotrazione che derivava dalla combustione in semi assenza di ossigeno di masse solide come, ad esempio, carbone o coke o semplicemente legna a produrre monossido di carbonio che una volta ossidato nuovamente porta alla emissione di anidride carbonica, il vapore acqueo che si genera dalla combustione e che permea il carbone incandescente produce una miscela di “gas d'acqua” che si unisce agli altri prodotti della combustione a formare il “gas povero”. Questo era sì un combustibile economico ma aveva di contro un basso potere calorifico. Quantunque si proponessero sistemi produttivi di energia nuova si doveva far conto sempre con i giacimenti carboniferi fossili.

Difatti, il primo problema che la nazione si trovò ad affrontare per la produzione di energia era proprio il carbone che se nel 1934 ne erano state importate 14.589.600 tonnellate, nel 1936 dopo le sanzioni la quantità si ridusse a 9.236.600. La perdita doveva quindi essere rimpiazzata con un aumento della produzione nazionale, che venne in parte colmata con i giacimenti carboniferi dell'Istria e della Sardegna. In quello stesso anno perciò la produzione complessiva, compresa la lignite (la lignite è un carbone fossile originatosi da foreste del Mesozoico e del Terziario) fu di circa 1.600.000 tonnellate che comunque rappresentavano soltanto 1/10 di quello che era stato importato due anni prima.

Gli studi, per esigenze stringenti (si dovevano fa muovere navi e mezzi militari), si orientarono sui combustibili liquidi ossia su come produrre benzina per idrogenazione.

La tecnica di idrogenazione era molto recente, fu sviluppata per la prima volta nel 1913 da Friedrich Bergius che poi nel 1939 fu insignito del Nobel per la chimica, molti erano i dubbi ma era doveroso tentare. La Montecatini e l’Agip nel febbraio del 1936, coraggiosamente costituirono l’Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili (ANIC), con capitale per metà pubblico e per metà privato. L’ANIC riuscì a mettere a punto tutti i processi produttivi grazie all'acquisto di brevetti esteri ed in poco tempo mise a regime la produzione di combustibili liquidi per idrogenazione in due grandi impianti che vennero aperti a Bari e a Livorno.

Ma un'altra energia faceva ingresso nel pensiero collettivo di tecnici e scienziati, quella elettrica che avrebbe dovuto sostituire o quantomeno integrare l'energia termica. Le centrali elettriche italiane erano essenzialmente idrauliche, l'acqua e le dighe costituivano quello che era definito il “carbone bianco” presente in ogni momento in Italia ed in quantità copiosa; pertanto, fu pensato di elettrificare ogni cosa ma in realtà, di fronte a considerazioni pratiche, si affermò la consapevolezza che costituiva delle enormi difficoltà.

Il problema dell'energia è attuale, vuoi per la ricerca di fonti sostenibili volte ad abbattere le emissioni di anidride carbonica vuoi in situazioni come la guerra, dove per distruzione o sanzioni si perdono i normali canali di rifornimento. Oggi come allora è importante valutare la necessità di diversificare i nostri approvvigionamenti e non essere dipendenti da altre nazioni come invece lo siamo. Il 95,6% del gas di cui abbiamo bisogno arriva dall'estero, per il 38,2% tramite tre gasdotti dalla Russia: l'Urengoy-Pomary-Uzhgorod, lungo 4.450km, che parte dalla Siberia, passa per l'Ucraina e arriva quasi in Slovacchia, da lì, con il Transgas, arriva in Austria e viene immesso nel Tag (Trans Austria Gas), controllato da Snam, che lo trasporta per 380km fino all'impianto di Tarvisio, in provincia di Udine. Il resto ci arriva dall'Algeria (27,8%), dall'Azerbaijan (9,5%), dalla Libia (4,2%), per il 2,9% dal Nord Europa (Norvegia e Olanda) e per il 13,1% arriva sottoforma di Gnl, in prevalenza dal Qatar.

Fino ad ora era stato più conveniente acquistare dall'estero che produrre in casa ma la volubilità dei rapporti internazionali ci riporta a pensare come già è storia della nostra nazione, a soluzioni alternative che con i mezzi odierni sicuramente offriranno nuovi e sostenibili carburanti e che già le altre nazioni europee hanno approntato.