A casa di un amico scrittore ho ritrovato in modo alquanto fortuito il piacere di leggere buoni romanzi per il puro gusto di farlo, sono tornato a essere un divoratore di libri come non mi succedeva da anni e ho cominciato a dragare gli angoli più negletti delle rivendite di volumi di seconda mano dove trovare le opere maggiormente confacentisi ai miei gusti. Ho riscoperto, al contempo, le gioie della rilettura, acquisendo anche le malizie del lettore scafato che mi consentono (con una certa dose di presunzione, ovviamente) di saltare paragrafi, pagine, a volte interi capitoli pur di arrivare in fondo alla storia senza arenarmi in qualche secca del torrente di parole che in fondo un romanzo è.

Sono giunto a capire che leggere buona narrativa a ritmo di lettura sostenuto facilita la comprensione del testo anziché, come più sensatamente parrebbe, ostacolarla – certo, bisogna essere già a conoscenza di un numero considerevole di vocaboli ed essersi fatti un bell’orecchio per le costruzioni sintattiche più temerarie. Ho persino ritrovato il piacere di maneggiare un libro come nudo oggetto accarezzandone le pagine mentre leggo, in qualche caso annusandole o lasciandomi suggestionare dalle immagini di copertina. A questo proposito, ho già raccontato come una volta abbia acquistato un libro (Il visitatore segreto di John Le Carré) in forza solo dell’attrattiva rappresentata per me dalla copertina. Avevo già il libro sugli scaffali della libreria di casa mia, ma di un’altra edizione, con una copertina differente, e io invece volevo quella specifica copertina. Così, dopo qualche esitazione, alla fine, sborsai la cifra necessaria per l’acquisto di un’altra copia de Il visitatore Segreto di John Le Carré. Se si eccettua la Bibbia e la Divina Commedia (e se si eccettua It di Stephen King del quale posseggo anche un’edizione rilegata in lingua originale acquistata per pochi spicci in un book-store di Minneapolis-St.Paul in Minnesota, Stati Uniti) Il visitatore segreto è l’unico romanzo del quale abbia in casa due copie.

Nella ricerca di libri da leggere nei negozi dell’usato o sulle bancarelle (un motivo che mi ha portato a frequentare un luogo nel quale mai avrei pensato di mettere piede in vita mia: il mercato) proprio in questi giorni sono incappato in quello che nella mia mente pomposamente definisco “L’Ultimo Libro Che Stavo Cercando”. L’Ultimo Libro Che Stavo Cercando altri non è che “L’Ultimo Libro Dopo Il Quale Non Comprerò Più Altri Libri” ovvero “Il Libro Dopo Il Quale Sono Certo Di Avere In Casa Tutti I Libri Che Desidero E Che Ho Sempre Desiderato”. In realtà, a onta di tutte queste maiuscole e della solennità un po’ fanfarona del tutto, ho già acquistato altri tre libri: Incubi di Dean Koontz, Gli artigli del male di John Farris e Bersaglio mobile di Gerald Seymour (che secondo quanto si legge sullo strillo di copertina nel 1989 veniva definito dal New York Times il nuovo Le Carré). Bersaglio Mobile di Gerald Seymour è del 1989, ma è stato pubblicato da noi in Italia nel 1997 – dato che parla di traffico di droga incrociato a quello delle armi in Iran e in quel periodo la Guerra del Golfo (che tirava in ballo l’interesse anche per l’Iran) era ancora un tema caldo. Lo stesso dicasi per Gli artigli del male di John Farris. Un libro risalente al 1987 pubblicato in Italia alla fine degli anni ‘90 – e in effetti con la sua vicenda che ruota attorno a un attacco eco-terroristico al settore cerealicolo allo scopo di determinare un crollo dell’economia mondiale Gli artigli del male era in anticipo sui tempi presentando nuances pulp più anni ‘90 che *allure tipicamente anni ‘80. “L’Ultimo Libro Che Stavo Cercando” o se volete “L’Ultimo Libro Dopo Il Quale Non Comprerò Più Altri Libri” risale, invece, stando ai dati ricavabili dal colophon, al 1993 ossia quando io altri non ero se non poco più che un mocciosetto. Si tratta di Gli occhi del terrore di William Katz.

Ho sempre avuto ben presente la copertina di quel libro nella memoria prima di ritrovarlo su una bancarella al mercato qualche giorno fa. Un teschio umano con orbite vuote e scure come grosse e assai ben riuscite tane di talpa, il triangolo storto e cavo del naso e una chiostra di denti con la fila dell’arcata superiore che si interrompe a metà e la fila di quella inferiore che si interrompe nell’altra metà, in una sorta di simmetria che fa abbastanza accapponare la pelle. Come tocco finale una saetta attraversa il teschio disegnandogli ragnatele di scariche elettriche sul cranio osseo e sul volto di morte. Da ragazzetto questa copertina mi occhieggiava di continuo dagli scaffali del reparto libri del supermercato interno al Centro Commerciale della mia città. Mi dicevo che non avrei mai alleggerito il portafogli di 13.500 delle vecchie lire per tirarmi in casa un libro simile. Chissà cosa doveva esserci mai dentro, se la copertina era quella, pensavo tra me e me. Immaginavo chissà cosa.

Una volta acquistai per posta tramite Il Club Degli Editori Antiche Immagini di Ramsey Campbell. Devo confessare che a dodici, tredici anni farsi arrivare a casa un libro come quello significava varcare un certo confine. La trama del romanzo era quello che era e persino un ragazzo giovane come me allora se ne rendeva conto (anzi, me ne rendevo conto più allora di oggi), ma la copertina… La copertina era tutta un’altra musica. Scritte bianche su campo nero. Dalla striscia di una pellicola di immagini in celluloide fuoriesce una gigantesca zampa mostruosa. La zampa è rivestita da una pelle squamosa e zigrinata di un colore melmoso, grigiastro-marroncino, ed è provvista di cinque artigli a forma di uncino, il terzo del quale infilza un uomo trapassandogli la spina dorsale e uscendogli dallo stomaco. L’unghia che esce dallo stomaco dell’uomo è ovviamente sporca di sangue. C’è anche una corona di schizzi attorno all’unghia mostruosa a testimonianza che il macabro omicidio è rappresentato dall’illustratore nel momento in cui avviene davanti ai nostri occhi in presa diretta.

L’uomo si vede nella sua figura intera. Indossa un paio di stivaletti marroni alla texana. Jeans attillati e una cintura anch’essa marrone. Ha una camicia bianca con le maniche arrotolate. Le braccia sono sollevate al di sopra della testa con le mani contratte ad artiglio per il dolore. Sul braccio destro l’illustratore non si è dimenticato di disegnare all’uomo il cinturino in pelle di un orologio. La bocca è spalancata con dei fili di sangue che escono fuori per via delle budella squarciate. Gli occhi sono quasi privi di espressione. Il volto di un uomo che ha subito una morte assurda e violenta, sotto una capigliatura ordinata, capelli neri, pettinati con la riga in mezzo. Dà in tutto e per tutto l’idea di essere un impiegato o di occupare un ruolo non molto dissimile, il che aumenta l’orrore della situazione. Il corpo dell’uomo è inarcato verso l’alto, trafitto dall’artiglio come la punta di una penna trapasserebbe un insetto. Un’immagine spaventosa. Forse la copertina più violenta e raccapricciante tra quelle dei libri che ho in casa. Non vi è nulla di morbido o scherzoso.

Anni dopo anch’io avrei scritto un libretto horror dal titolo Il mostro della piscina. Ma nella mia storia mi sarei ispirato al Mostro della Palude di cui avevo letto a diciassette anni nel saggio di Stephen King Danse Macabre – del quale ora che ci penso acquistai una copia in lingua originale alla Fnac di Milano con una fantastica copertina rosso ketch-up e sotto il nome scritto a caratteri cubitali dell’autore un’immagine dalla presenza discreta, quasi timida raffigurante una striscia di pellicola cinematografica provvista di varie immagini lugubri impresse sopra (un cimitero con croci e lapidi in un riquadro e nel riquadro accanto una luna luminosa quasi quanto un sole circondata da nubi nere) dalla quale esce la mano di un demone con lunghe dita scheletriche e unghie a uncino e dietro si srotola come un serpente la coda a punta): mi misi persino a tradurlo, quel libro, a testimonianza di quanto per quel saggio fossi uscito di senno, fino a quando non feci acquisto di una seconda copia in italiano con una bella copertina blu e liscia, tutta da accarezzare, delle edizioni Theoria, raccattata da un angolo del supermercato interno del Centro Commerciale della mia città sentendomi il diciassettenne più fortunato al mondo - colorando il mio mostro di un acceso verde acido e descrivendolo di un aspetto finto e gommoso simile a quello del Mostro Della Palude nel film anni ‘50 menzionato da Stephen King nella sua poderosa tesi di laurea in “orrorologia” e facendolo peraltro emergere, il mio lucertolone, non dalle sabbie mobili di una palude, ma dalla vasca d’acqua linda e pulita di una piscina comunale di Villaromagnano, un paesino semisconosciuto dalle mie parti. Il mostro della copertina di Antiche Immagini, invece, fa proprio sul serio. Fa ribrezzo. Non scherza.

Ma non è l’unica copertina che quando ero ragazzino ha incendiato la mia fantasia facendomi credere che avrei trovato all’interno del libro chissà che. Anche la copertina de Il ritorno degli zombi pubblicato dal periodico semestrale Urania lo ha fatto. Una donna in vesti discinte si solleva a mezzo busto da un terreno fatto di sterpaglie in una notte piena di foschia. Accanto alla donna c’è una croce fatta da due bastoni di legno e tenuta insieme da uno spago lercio piantata sul terreno in modo sbilenco e assolutamente instabile. La donna ha le braccia lattee, burrose e una di esse è protesa in alto con la mano spalancata. Il volto si vede appena. È inclinato verso l’alto e mostra una smorfia di disperazione. Un braccio spunta dal terreno artigliandole il collo. Il braccio è lordo di terriccio e copre, impedendone la vista, lo spacco dei seni della donna e il collo. La morsa con cui la mano dello zombie chiude il collo della vittima nel cimitero appare ferrea, implacabile. L’immagine è così vivida che a volte se la osservo troppo a lungo ancora oggi mi sembra un vento gelido soffi fuori dall’illustrazione colpendomi il viso. Il titolo è una scritta rossa e sotto segue una lista di autori horror tra i quali figura anche il nostro amico Ramsey Campbell, sebbene quelli che ricordi con più favore all’interno di questa raccolta siano i nomi di Joe Landsdale con Nel lontano deserto delle Cadillac con il popolo dei morti e Michael Marshall Smith (che circa vent’anni più tardi, come ho già raccontato altrove, e precisamente nell’articolo Il gusto di saltare le pagine, mi deluderà moltissimo con il suo romanzo Ricambi edito da Garzanti).

Tra le copertine che hanno scavato di più nella mia immaginazione di adolescente ci sono senz’altro, oltre alle già citate, La mutazione di Robin Cook e Imbroglio di Elmore Leonard. Temo che La mutazione, in particolare, sia pure il romanzo horror che mi abbia messo più strizza in assoluto tra tutti quelli che ho letto. Oltre alla descrizione fornita da Cook del bambino clonato con quegli intensi occhi azzurri e i riccioli d’oro, ha senza dubbio concorso a mettermi tutta quella fifa blu addosso anche l’immagine della sovra-coperta elaborata dall’illustratore Miani e dalla grafica Lidia Guilbert Ferrara per le edizioni speciali riservate agli abbonati del Club Degli Editori. Pagate per avere paura e avrete più paura! Vi faremo schiattare, anzi, dalla paura! Un’infermiera con una cuffia di lattice verde calcata sulla testa. Dalla cuffia spuntano in modo disordinato e non bello ciuffi di capelli. Dall’attaccatura della cuffia cadono grosse gocce di sudore su una fronte aggrottata e solcata da rughe di profonda tensione. Le sopracciglia sono lunghe e ben visibili sopra un paio di occhi azzurro ghiaccio con delle zampe di gallina agli angoli. L’espressione di occhi e sopracciglia è di estrema ansia. Ma ecco la parte che mi riempie più di brividi ancora oggi. La donna indossa una mascherina antibatterica di quelle che ormai conosciamo fin troppo bene. Agli angoli del viso si notano anche gli elastici agganciati alle orecchie niente affatto a sventola. Esattamente in mezzo agli occhi della donna una enorme siringa con il cappuccio nero e un lungo ago le spartisce con precisione chirurgica il volto. Dentro all’enorme siringa c’è un batterio mostruoso: marroncino, squamoso e spugnoso con tanti filamenti aguzzi che si allungano dal corpo principale. Attorno a questo batterio ce ne sono altri più piccoli disposti in circolo, come una sorta di sinistra figliolanza. Invece, la copia di “Imbroglio” di Elmore Leonard nell’edizione del Club Degli Editori è simile alle copertine di Segretissimo – la serie di romanzi spy che in genere si trova in edicola. La copertina rappresenta i due protagonisti della vicenda, un uomo e una donna dalla bellezza idealizzata e poi vari oggetti e scenari che si ritrovano all’interno della storia: un aeroplano in fase di decollo, un camion di grossa cilindrata che tutto fa pensare fuorché di trasportare merce innocua e un gruppo di guerriglieri armati fino ai denti in azione in una landa desertica e dal cielo tinto di rosso da esplosioni di bombe al napalm e dinamite.

Posso ormai confessare di aver acquistato nel corso di questa età così verde della mia vita Antiche Immagini di Ramsey Campbell e Imbroglio di Elmore Leonard e tanti altri romanzi perché le copertine erano in un certo senso parecchio promettenti. Non solo, ma nella mia ingenuità di ragazzino (dodici, tredici anni) sono arrivato a credere che certe scene raffigurate sulle copertine dei romanzi io le avrei trovate descritte nei romanzi stessi. Ho fatto acquisto di Antiche Immagini di Ramsey Campbell perché pensavo che davvero Campbell a un certo punto nel corso della sua storia avrebbe dedicato una decina di pagine a descrivere con dovizia di particolari truculenti la zampa di un mostro che esce da una pizza cinematografica, arpiona le sue vittime e le inghiotte con sé all’interno del mondo fittizio impresso su materiale di celluloide destinato a essere proiettato in una saletta di cinematografo. Non avevo idea di come Campbell sarebbe riuscito a fare una cosa del genere. Come avrebbe fatto a renderla credibile agli occhi del lettore. Ma pensavo l’avrebbe fatto. Anche perché sarebbe stato bellissimo farlo! Chi non vorrebbe scrivere una scena così?

Anche per Gli occhi del terrore di William Katz la mia fantasia aveva immaginato molto più di ciò che la copertina prometteva. Il romanzo di William Katz è un libro giallo virato sull’horror congeniato in modo impeccabile – anche se il mio preferito di Katz rimane Festa a sorpresa. Non c’è minimamente alcun riferimento alla scena di un teschio che viene colpito da una saetta durante l’impazzare di un temporale. Ma io da ragazzino temevo proprio di trovare quella specifica scena all’interno del libro e decisi fosse meglio evitarla per non passare notti insonni a morire di paura a ogni minimo scricchiolio o fruscio di foglia secca fuori dalla finestra. Per qualche tempo non ho considerato che certe copertine offrissero un’immagine puramente simbolica della storia narrata all’interno del romanzo. Antiche Immagini di Ramsey Campbell non ha particolari scene violente. Né presenta scene particolarmente sovrannaturali. Eppure, a dodici, tredici anni (il tempo di capire che una copertina è una cosa, il contenuto di un libro un’altra) proprio di questo andavo in cerca. Scene impossibili. Scene piene d’immaginazione.

Le copertine sono importanti. Ecco. L’ho detto.

Che cosa fa innanzitutto una buona opera di narrativa? Una buona opera di narrativa fa anzitutto immaginare. Ci sono i messaggi. Ci sono molte cose che una buona opera di narrativa fa o può in linea teorica fare. Ma la prima cosa, la prima prima, è quella di far immaginare. Un buon romanzo stimola anzitutto la capacità immaginativa del lettore. Alcuni libri fanno immaginare facilmente le storie che raccontano: quasi non si deve fare niente, bisogna solo leggere. L’autore si premura di dire tutto quello che serve, di adornare la mente del lettore di ogni dettaglio: il vaso di fiori di qui, la finestra spalancata sul mare di là, il tavolino qui, il corpo steso sul pavimento a scacchi in basso e lì vicino, un po’ sul pavimento, un po’ sul tavolino e un po’ sul vaso di fiori… macchie di sangue. Se devo dire, sono le storie che preferisco, quando sono decentemente scritte. Ma ci sono anche storie che mettono lì poche indicazioni. Si limitano a suggerire. A stimolare. Dopodiché, sei tu che devi immaginare. Tu devi fare qualche sforzo. A volte anzi, ci sono storie nelle quali chi le racconta disorienta di proposito. Dice una cosa, ma questa cosa non è quella vera, giusta. Altera, omette, distorce. Lo capisci dopo un po’, se stai attento. Capisci che non puoi fidarti di chi ti sta raccontando la storia. Così, devi moltiplicare gli sforzi.

Un buon esempio di questo genere di vicende è Lucy di Melanie Tem. Si tratta di un esempio buono per intendersi perché non è roba impegnativa come quella, ad esempio, di Paula Hawkins o Kazuo Ishiguro. Per non parlare di William Faulkner. La prosa di Melanie Tem è semplice e scorre via. Ma ti costringe a immaginare le peggio cose raccontandoti fatti, tutto sommato, assolutamente piani e tranquilli. Tutta questione di immaginazione. Immaginare prima ancora che interpretare. Nei romanzi (specialmente i classici e i romanzi importanti) anche interpretare è un’attività assai pertinente: ci sono messaggi da cogliere, da rintracciare e da decodificare. Bisogna capire. Ma certamente, più ancora dell’interpretare, nei romanzi viene prima di tutto l’immaginare. Immaginare ambienti, personaggi, toni di voci, profumi… Quanto più possibile. Ed ecco che in questo senso le copertine tornano imprevedibilmente ad assumere un ruolo assolutamente essenziale nel processo di immedesimazione in una storia.

Le copertine sono immagini e un romanzo altro non è che un insieme di immagini: a volte solo abbozzate, altre illuminate alla luce fioca di un fiammifero, altre spiattellate come in un cartellone pubblicitario pieno di lampadine al neon. Non saprei dire quali siano le copertine migliori per un libro. Se esista un’etica nell’ideazione di una copertina. Potrei documentarmi, ma non credo sia importante per i miei scopi saperlo. Stante tuttavia tutto quello che ho raccontato fino a qui immagino le copertine migliori quelle che non promettano cose che nella narrazione non ci sono o che non occultino al lettore il reale contenuto delle storie all’interno del libro.

A me è personalmente capitato di premeditare una cosa del genere ai danni del lettore con il mio secondo romanzo Il diario dei sogni. Ero ancora giovane e avventato. Mi piaceva sperimentare, sorprendere, andare alla ricerca dei punti limite. Mi nutrivo di teorie sulla letteratura. Avevo letto un sacco di libri di teoria letteraria e alla fine, come il mio solito, avevo cercato di tirare qualche conclusione prima di arrivare alla cosa che volevo davvero: agire, fare, mettermi a scrivere. Perché si costruiscono teorie letterarie? A cosa servono? La risposta la trovai nella scienza. Una teoria scientifica cerca di spiegare un certo fenomeno fisico. Newton e la gravità. Einstein e la relatività. Niels Bohr e l’atomo. Tentativi di descrivere e spiegare, rendere comprensibili, fenomeni concreti che accadono nel mondo. Come funzionano. Se sai come funzionano puoi provare a metterli sotto il tuo dominio, a controllarli: a usarli. Il problema è che quando credi di aver trovato la spiegazione di un fenomeno ti accorgi che non sai spiegare un altro fenomeno a esso correlato: la relazione, l’iterazione tra fenomeni correlati, di solito, mostra i limiti della teoria. Mostra che per quanto buona, quella teoria è destinata a diventare presto o tardi un mito, una favola, pura narrazione. Ecco, una teoria letteraria non fa qualcosa di molto diverso. Cerca di spiegare questi strani oggetti che sono le opere di finzione.

Noi siamo per lo più convinti che una teoria letteraria non sia altro che il presupposto teorico per fondare un nuovo movimento culturale, creare una nuova estetica, lanciare una moda. Ma nella sua reale essenza una teoria letteraria cerca di spiegare come sia possibile che Omero, Shakespeare, Puskin, Kafka, Thomas Mann e Wolfgang Goethe siano così diversi ma allo stesso tempo possano coesistere, siano arte, letteratura. L’arte genera turbamento e vivere non capendo realmente autori come Samuel Beckett, Gogol o Marcel Proust può essere qualcosa di difficile da portarsi dentro – per non parlare, poi, di vivere senza aver fatto proprio il reale significato delle Sacre Scritture. Sono esperienze che alimentano il naturale senso di spaesamento che accompagna un uomo e una donna dalla nascita. Le teorie del Novecento ruotano per lo più intorno al grande principio del disorientamento. Il valore più grande di un’opera è riuscire a disorientare il lettore. Fargli perdere i punti di riferimento. Farlo annaspare. Spegnere la luce e farlo sentire al buio e solo. Noi gridiamo arte, novantanove su cento, quando troviamo questo effetto. Ma il disorientamento è solo uno e un solo principio tra quelli possibili e una teoria che ruoti esclusivamente attorno a un simile principio non basta a spiegare la totalità del discorso artistico letterario più o meno come la sola gravità di Newton non basta a spiegare il funzionamento dell’universo conosciuto e nemmeno la relatività di Einstein fino a quando non si arriverà alla teoria unificatrice del Tutto.

La verità è che le grandi opere di letteratura non ruotano attorno a un unico principio, ma presentano una vasta gamma di possibilità, quasi tutte. L’esempio che preferisco è Il dottor Zivago di Boris Pasternak. Scritto in un momento storico di pieno sperimentalismo, Il dottor Zivago presenta una forma sperimentale, ma è anche un romanzo pieno di tradizione. Altro principio fondamentale della narrativa odierna elaborato dai teorici della letteratura è l’ibridazione. L’ibridazione dei generi o delle forme artistiche è un’altra di quelle parole magiche che fa andare in sollucchero i critici e fa gridare al miracolo letterario. Ma l’ibridazione nasconde un concetto molto più importante. Chiamiamo “ibridazione”, cerchiamo “l’ibridazione” ma ciò che vogliamo davvero è l’equilibrio. L’equilibrio armonico delle parti. Sperimentalismo e classicismo. Innovazione e tradizione. Questo cerchiamo. Il giusto mixaggio dei diversi principi che stanno alla base di una buona opera narrativa. Equilibrio.

Dunque, tenendo più o meno conto di queste cose (e cioè di non fare del Disorientamento, o dell’Ibridazione, o della Trasformazione, o dell’Oggettivismo… il mio unico dio) sperimentavo. Come detto, chiamai il mio romanzo “Il diario dei sogni” e riuscii a farlo pubblicare da una piccola casa editrice giovane e appena nata di nome Las Vegas Edizioni. La copertina rappresenta sì una scena del libro, ma il personaggio ha le fattezze, ricorda vagamente, un manga giapponese, un cartone animato. Nulla fa presagire nella copertina, nel titolo, nel nome della casa editrice il reale contenuto del libro. Poi lo apri e ti sembra di aver spalancato la bocca di un mostro con enormi denti giallognoli e pieni di tartaro e una linguona di mezzo metro, carnosa e lucente che ti sbuffa addosso miasmi puzzolenti prima di strapparti la faccia con un morso. E tu non sei assolutamente pronto per tutto questo. Sei lì sicuro di divorarti questo libretto dall’aspetto innocuo e invece è lui a divorare te mangiandoti un pezzetto alla volta parola dopo parola. Il divoratore di libri è stato divorato. Il candido appassionato di letture un po’ naif ha trovato l’amore tossico. Be’, ora sto forse esagerando, non è proprio così… ma di sicuro il romanzo non parla di sogni di gloria, aspirazioni giovanili e altre melensaggini giovanilistiche. Mette in fila solo incubi e alla fine arriva la tragedia. Pertanto, non sono il soggetto più indicato per salire sulla cassetta della frutta e mettersi a predicare bene in tema di etica di progetti grafici di copertina – ammesso che siano mai stati fatti e potrei documentarmi per saperlo ma come ho già detto credo non abbia importanza farlo per i miei scopi in questo scritto. Ma anche nell’esempio appena riportato si è in grado di notare bene quanto abbia tenuto conto dell’impatto emotivo che una copertina può avere nella mente e nel cuore del lettore.

Perciò io sono un fan delle copertine. Le copertine servono. Le copertine sono utili. Le copertine fanno parte integrante dell’opera. Le copertine possono farti innamorare. A dodici anni potevo stare anche una decina di minuti a osservare la cover del tascabile della Sperling&Kupfer di *Confessionale” di Jack Higgins mentre attendevo di ricaricare le energie per rituffarmi nella lettura. Era sconvolto da quanto bravo fosse Higgins. Quanto quelle storie fossero… belle. Così mi guardavo bene il foro nero della Whalter PPK puntata da un braccio rivestito da un giubbotto nero dritto sull’obiettivo della macchina fotografica. Guardavo bene il nome dell’autore. Leggevo gli strilli esaltati del New York Times. Mi chiedevo come si potesse essere così bravi a scrivere, a dare emozioni, a farti immergere in una storia. Intanto, ripetevo solennemente tra me e me il nome dell’autore. “Jack Higgins”. “Confessionale”. “Jack Higgins”. “Confessionale”. “Jack Higgins”. “Confessionale”. Dopodiché, riprendevo la lettura. Diamine, le copertine sono fondamentali!

Del resto, c’è qualcosa di molto potente in un’immagine. Faccio parte della generazione della televisionizzazione e come tutti sono oberato dalla nascita da suoni e immagini. Eppure, non c’è niente, in fondo, che ricordi meglio delle immagini. Poster. Cartelloni. Cartoline. Copertine. Quando ero giovane io e facevi quattro passi ti capitava di finire davanti all’edicola dei giornali. Il retro dell’edicola era tappezzato di foto di donne nude. Per parecchio tempo le foto di donne nude sulle copertine di riviste per soli uomini stavano in bella mostra anche sul davanti dell’edicola. Quelle immagini colpivano come fucilate. Anche i cartelloni pubblicitari dei film al cinema. Facevi quattro passi e agganciato a una bacheca sul muro di un edificio trovavi un enorme cartellone con un uomo muscoloso, una fascia rossa stretta attorno alla fronte e un fucile mitragliatore alla USA Invasion oppure un mostro obbrobrioso con la pelle martoriata dalle ustioni e gli occhi fuori dalle orbite che anteponeva il suo guanto con i rasoi come artigli sulle teste di tre ragazzi dall’aspetto innocente. Sbam! Quella roba ti colpiva come un treno merci. Anche i negozi che vendevano videocassette non scherzavano. Adesso non ci sono praticamente più, ma una volta questi negozietti spuntavano come funghi. Dentro a questi negozi c’erano in bella mostra le locandine dei film o le copertine delle Home Video. Passavi davanti alla vetrina di uno di quei negozi e ti poteva capitare di vedere, nel 1983 o ’84, l’immagine di una ragazza dai capelli lunghi e biondi come quelli di mamma, gli occhi spiritati e il volto e il corpo totalmente ricoperti di sangue rosso come quello che scende dal costato di Gesù nel crocifisso della chiesa sotto casa. Deve essere una proprietà specifica delle fotografie o dei dipinti.

Il cinema offre moltissimo materiale per l’immaginazione, ma l’immagine del cinema è un’immagine in movimento, si trasforma, segue un cambiamento, tende verso un punto. L’immagine di un cartellone, l’immagine di un poster, l’immagine di una copertina, invece, sono fisse e non si può fare altro che confrontarsi con quella singola immagine, quella singola scena, quel singolo messaggio e questo mette in moto l’immaginazione, l’interpretazione, quando non una forma embrionale di comprensione. Sì, più ci penso e più mi convinco che le copertine siano fondamentali.

Anzi, a me piacciono anche le illustrazioni che inframmezzano le pagine delle narrazioni. Ne vorrei di più. Non parlo di inserire dentro alla narrazione fotografie o altro. Intendo proprio illustrazioni, disegni. Ad esempio, a otto anni le illustrazioni di Gustave Dorè della Divina Commedia furono per me fondamentali, mentre sfogliavo con reverenza i volumi di Inferno, Purgatorio e Paradiso che i miei tenevano in casa senza capirci ovviamente un’acca. Fondamentali furono le illustrazioni all’interno del romanzo di Giovanni Ruffini Il dottor Antonio e altrettanto importanti le illustrazioni all’interno dell’edizione dei Fratelli Melita de Il richiamo della foresta e di Martin Eden di Jack London.

Perché osservi quei disegni tutto sommato semplici che ritraggono una singola scena selezionata tra decine di altre scene e ti rendi conto che con tutto quello che hai letto sui soggetti rappresentati nell’illustrazione sei in possesso di moltissime informazioni sul loro conto, sai chi sono, cosa succede e qual è il contesto, non si tratta più solo di due soggetti nell’illustrazione di un libricino acquistato a buon mercato su una bancarella, li conosci, provi per loro persino dei sentimenti; e pensi “Ecco che faccia hanno, come sono fatti. Io me li immaginavo un po’ diversi, ma fa niente. Sono questi. Sono così”.

Perché copertina e illustrazioni ti riconducono a quell’età dove con la bocca ancora sporca di latte ascoltavi le fiabe dei Fratelli Grimm o le favole di Perrault prima di addormentarti sbirciando nel frattempo quelle belle illustrazioni e sognando, fantasticando.

Perché semplicemente le illustrazioni al pari delle copertine aiutano a sentirti trasportato nel bel mezzo di una storia che probabilmente non vivrai mai nel corso della tua vita.