Come sempre cerchiamo di analizzare le risorse che lo yoga ci mette a disposizione per migliorare la nostra pratica, maturare a livello psico-emotivo nella nostra vita quotidiana e far crescere la coscienza collettiva. In particolare, analizzeremo qui perché il rispetto è uno dei valori fondanti dello yoga e come può aiutarci a gestire le difficoltà sul tappetino e nel nostro quotidiano.

How the body changes the mind & vice versa

Tutti noi per rispetto intendiamo un “sentimento e atteggiamento di riguardo, di stima e di deferenza, devota e spesso affettuosa, verso una persona, ma anche verso istituzioni civili o religiose che porta a riconoscere i diritti, il decoro, la dignità e la personalità stessa di qualcuno, e quindi ad astenersi da ogni manifestazione che possa offenderli” (fonte: Treccani). Il concetto può rivolgersi anche a noi stessi, anzi più impariamo a rispettarci più saremo in grado di farlo col resto del mondo.

Nello yoga il concetto di rispetto si allarga a una riflessione che, come sempre, vuole essere messa in pratica. Come si impara a rispettare se stessi e gli altri? Come si può porre attenzione a non violare i confini dei sentimenti e delle credenze di un altro essere? Non solo, perché lo yoga, come sappiamo, amplia la riflessione anche al mondo animale, naturale, ambientale, energetico e cosmico. Non a caso la non-violenza (ahimsa) è il primo dei principi guida (yama) di condotta morale per la vita sociale dello yogi.

Quando ho iniziato a scrivere Psycho Yoga Blog, questa rubrica, uno degli obbiettivi era porre l'accento sulle contraddizioni della nostra società che troppo spesso esalta un tipo di yoga prestazionale, atletico, vincolato a dinamiche estetiche e in apparenza fine a se stesso e al raggiungimento di particolari evoluzioni corporee più o meno da contorsionista. All'epoca pensavo che avremmo dovuto smetterla di pretendere di essere tutti performanti sul tappetino, lo penso ancora, ma oggi mi rendo conto che la riflessione è da allargare anche a quanto avviene fuori dalla shala, nella vita di tutti i giorni.

Essere performanti facendo yoga non è di per sé un male, intendiamoci, ma trascura davvero tanto del nostro potenziale. Significa lavorare solo sull'esterno, quando lo yoga ci dà la possibilità di lavorare a partire dall'interno e sul sottile per modificare in modo naturale l'esterno sia fisico che mentale, nonché di conseguenza il nostro agire nel mondo. Lo yoga è un portale per esplorare la nostra esistenza. Nella nostra società inoltre essere performanti ha molto a che fare con la progettualità. Essere performanti sul lavoro significa programmare, calendarizzare, darsi obbiettivi, scadenze funzionali al loro raggiungimento... lo sappiamo bene. Nella vita affettiva diventa qualcosa del tipo “quando lui/lei sarà così, quando lui/lei smetterà di essere cosà, quando vivremo insieme...”.

Nella vita interiore può riguardare, per esempio, ciò che voglio migliorare, “quando avrò questo diploma, quando potrò fare quest'altro, se fossi più... o meno...” e così via. Questo tipo di atteggiamento mentale credo ci accompagni tutti di continuo verso una perenne corsa a “ciò che dovremmo essere” e a “come dovrebbe essere” piuttosto che verso ciò che è e che siamo nell'istante. Finché cioè pretendiamo di avere un corpo diverso da quello che è, una mente diversa da quella che abbiamo, finché pretendiamo di sentirci in modo diverso da come ci sentiamo non saremo mai in grado di rimanere con quel che è presente nell'istante. Idem nella relazione con gli altri. Non saremo mai nel qui e ora, nell'apertura del puro ascolto senza giudizio. La via dello yoga invece ambisce a questo ed ecco perché mi hanno colpito le parole di Eric Baret1:

Ogni progetto è una mancanza di rispetto.

Il modello culturale in cui siamo immersi è figlio di un sistema economico che per funzionare e far guadagnare sempre di più a pochi ha bisogno di una classe di lavoratori efficienti e produttivi. Oggi come oggi è vietato fallire, o accettabile a patto che ci si rialzi subito e si traggano nuove sfide e insegnamenti dai propri insuccessi per poi rialzarsi e vincere la prossima partita, o meglio ancora il campionato. Forse per questo corriamo, progettiamo tanto e ci teniamo molto alle nostre performance e a far sapere al mondo quanto valiamo e quanto siamo capaci / belli / bravi / intelligenti / di successo (scegliete voi). Per carità nessuno vuole fallire e non rialzarsi, ma è chiaro che il marketing e i modelli a cui siamo sottoposti spesso esagerano questo aspetto aggiungendo non poco stress alle già numerose difficoltà del vivere.

Vedi la narrazione che è stata fatta dei fallimenti di Elon Musk o Bill Gates, semi dei dei nostri giorni, perché non solo dalle loro ceneri sono risorti, ma ne hanno tratto anche miliardi. In un'ottica yogica però vivere progettando eccessivamente, vivere cercando di raggiungere il ciò che dovrebbe essere è vivere nella “fantasmagoria” dice Baret.

Il correre di continuo verso una meta ipotetica posta nel futuro e il finire, di conseguenza, per non sentirsi mai abbastanza, mai all'altezza, mai arrivati, sarà funzionale al sistema forse, ma non a noi stessi e al nostro risuonare in armonia col mondo oggi stesso. Nella via dello yoga, inoltre, questa prospettiva non ha alcun senso perché ciò che siamo è già perfetto in sé nel momento stesso in cui siamo, viviamo, godiamo, piangiamo o soffriamo. Nell'unità della concezione yogica anche i momenti difficili hanno il loro perché e non vanno negati, ma piuttosto accettati o meglio ancora amati, accolti, contenuti e compresi all'interno di un’ottica più ampia, che va al di là del singolo momento. Lo yoga direbbe in un'ottica karmica2.

Ecco perché “occorre smettere di fare la guerra a ciò che è qui nell'istante” dice Baret. Rispettare di non essere rispettati o di non essere amati per esempio significa accettare che l'altro non ha alternativa se non quella che esprime. “Su un certo piano (questo “altro”) è infelice. Ma bisogna rispettare anche questo, perché quella persona ha bisogno del suo malessere”, per la sua evoluzione karmica si intende. In questo senso non si può rimproverare il prossimo, così come non dovremmo rimproverare noi stessi per qualcosa che non riusciamo ad accettare. Si può invece constatare che si è nel non rispetto, senza pretendere di liberarcene. Niente più reazione. Questo si intende come “espressione della non-dualità nella vita di tutti i giorni”. In quest'ottica (tantrica) nulla è inutile, nemmeno la mancanza di rispetto, nemmeno il tempo perso.

Tutto è necessario così come è, dice Baret. Chiaro che si tratta di una via non facile da mettere in pratica e da cui ci siamo allontanati parecchio nel corso dei secoli, ma che vale comunque la riflessione di questo mese, soprattutto alla luce del periodo difficile che stiamo tutti vivendo. In fondo, come dice Baret, si tratta di osservare come funzioniamo (senza porre in esser alcun giudizio) e proprio questo periodo potrebbe essere inteso come un'ottima occasione per sperimentare questo stato di esplorazione della nostra coscienza. “La bellezza è ovunque. Sta a me ascoltarla e scoprirla in ogni situazione”.

1 Eric Baret, allievo di Jean Klein ha consacrato la sua vita allo studio e all'esplorazione pratica della tradizione non-duale dello shivaismo del Kashmir. Le parti citate sono tratte da: L'unico desiderio. Nella nudità dei tantra. Ed. La parola, Roma 2010.
2 Karma: termine che, nella religione e filosofia indiana, indica il frutto delle azioni compiute da ogni vivente, che influisce sia sulla diversità della rinascita nella vita susseguente, sia sulle gioie e i dolori nel corso di essa. Sinonimo quindi di “destino”, concepito però non come forza arcana e misteriosa, ma come complesso di situazioni che l’uomo si crea mediante il suo operato. (Fonte: Treccani).