Tra gli artisti contemporanei emergenti, la produzione di Elisabetta Martinez risulta significante nella capacità di inserire nelle opere figure misteriose primitive e simboliche ispirate dai giganti di Nemrut Dagi in Turchia, dai templi del Bayon in Cambogia, dai grandi Buddha, dalle sculture ciclopiche dell’antica arte egizia come le colossali statue del faraone Ramses II nel tempio di Abou-Simbel nella Nubia.

Queste visioni rappresentano la realtà interiore dell’artista, non quella reale ma quella percepita, trattandosi di trasposizioni meravigliose di immagini non chiaramente delineate e definite. Richiamano gli impressionisti per l’interesse verso il colore e le vibrazioni, per le superfici non uniformi quasi in movimento, al contempo ricordano i blu cobalto di Joan Mirò e Marc Chagall, l’oro e le figure raccolte di Gustav Klimt, la cupola rivestita di foglie d’oro del Palazzo della Secessione a Vienna, le architetture di Joseph Maria Olbrich e Otto Wagner, le enigmatiche e stupefacenti opere di Antoni Gaudì.

Attualmente la pittrice romana lavora contemporaneamente a tre cicli: Geometrie e forme, Impronte e tracce, Follow me. Da un lato studia e ricerca la figura femminile raccolta in sé stessa, assorta in uno spazio interiore di abbandono e riflessione, dall’altro si dedica a lavori incentrati su forme archetipe immaginarie che appaiono su fondi informali dove inserti in foglia d’argento o d’oro ampliano i piani di lettura intrecciando linguaggi figurativi con forme geometriche e sensazioni visionarie.

L’abbiamo incontrata e intervistata a Roma, nella sede di Arsnova Gallery, dove l’artista espone le sue opere.

Quando è iniziato il tuo percorso di avvicinamento al mondo dell’arte?

L’odore forte di trementina e quello acre dell’olio di lino, la pastosità dei gessetti, le spatole e i pennelli, sono sempre stati a disposizione in casa. Poter giocare, pasticciare con carta e cartoncini, ombreggiare e sporcarmi con carboncini fusaggine e sfumini, sono stati momenti di rara magia e di puro divertimento, accanto a mio padre sempre appollaiato sul suo trespolo, concentrato a dipingere per ore e ore, vicini ma distanti, presi dalle “nostre visioni” inconsapevolmente intenti ad intrecciare quella grande tela, quel prezioso tessuto di vita e di ricordi.

Tre aggettivi per definirti?

L’emotività che colora le guance, imbrigliata e trattenuta dalla ragione; la sensibilità che ti scopre ma amplifica il sentire e l’ascolto; l’insicurezza che spaventa e ti blocca contrastata dal desiderio di fare, di provare, di trovare modi e soluzioni, in poche parole un bel groviglio, “una matassa” difficile da dipanare.

Puoi definire la tua pittura?

La mia pittura è ciò che sono. È la sospensione piena di attesa, il momento prima di agire, il restare in equilibrio su un’emozione, raccoglimento, riflessione ma anche lasciar andare.

Questo approccio quasi istintivo, riflesso di un sentire, ha trovato espressione nel tema del “volto”, che in origine rappresentava, per me, l’altro, gli altri, i tanti, i troppi con cui non riuscivo a comunicare, a interagire in modo tranquillo. Coloro che osservavano con mille occhi e altrettante espressioni seriose e assenti. Da qui, una serie di facce in bianco e nero sovrapposte e intrecciate in continuità l’una con l’altra, una miriade di volti reiterati, distanti e assorti.

Poi col tempo questa ricerca è passata a un livello più introspettivo e lo studio sul volto, inteso come astrazione geometrica, si è trasformato in un ovale sempre più sintetico nei suoi tratti pochi fisionomici, spesso interrotto da fratture e cesure, da elementi geometrici e nastri rappresentazioni di noi stessi, della nostra esistenza, delle sue interruzioni e dei cambiamenti, delle tante vite che abbiamo vissuto e i tanti capovolgimenti di rotta in un processo circolare pronto a ripetersi.

Quali sono le tecniche e i supporti che utilizzi maggiormente? Con quali materiali preferisci confrontarti?

In questo momento la pittura ad olio unita al carboncino e alla foglia d’oro è quella che più si adatta a questa tensione emotiva. L’olio che prima scivola e poi aderisce con la sua densa viscosità, che ti si oppone ma consente la possibilità di sovrapposizioni infinite, olio moltiplicatore di trame, di piani e di stratificazioni, la gioia della profondità.

Il carboncino che definisce margini e tratti, che va a cadere con la sua polvere sottile e morbida sulle partiture di colore, è lui che spinge il contrasto, crea chiaroscuri irregolari e smarginature impreviste.

Ed ecco che l’uso del colore ad olio usato puro, in sequenze e sovrapposizioni successive, crea le sfumature, le trame e le trasparenze...nil carboncino resta come traccia dello schizzo iniziale o come velatura che va a sporcare il colore… piccoli inserti in foglia d’ oro o d’argento ampliano i piani di lettura … la spatola come strumento principale del gesto creativo, schiaccia il colore, sfuma, crea rilievi, effetti vellutati seguendo benevola l’intenzione del movimento.

Il tutto si muove sulla tela a tratti lasciata nuda, bianca, incompleta per assecondare, col suo colore, la sua luce e la sua trama, l’immagine, la forma, le geometrie, altre volte il fondo colorato aiuta la stesura dei colori che accoglie fondendosi con essi.

Come scegli i soggetti che crei?

I miei lavori attuali vengono direttamente dalle mie prime esperienze sullo studio del volto, parlano di figure femminili sospese, raccolte tra sogno e realtà, volti pensosi e assorti nel sonno, scomposti e ricomposti da elementi geometrici e “tagli” che interrompono la continuità figurativa per dare una nuova interpretazione della forma.

Geometrie e Forme, i miei temi di studio e di ricerca, si articolano su due direzioni espressive che porto avanti contemporaneamente.

Da un lato lo studio della figura femminile raccolta in se stessa, assorta in uno spazio interiore di riflessione e dolce abbandono, interrotta, nella sua continuità formale, da sovrapposizioni di nastri e ritmi geometrici, mai conclusa nello spazio ridotto della tela. Il disegno resta accennato, incompiuto, astratto lasciando ampie partiture della tela non finite e smarginate.

Dall’altro lato mi dedico a dei lavori incentrati su forme archetipe, misteriose figure primitive e simboliche che appaiono su fondi informali, tracce, impronte di divinità senza tempo, definite da estese e ricche campiture di colore.

Un’opera antica a te particolarmente cara?

Le grandi sculture ciclopiche del tempio di Antioco II a Nemrut Dagi, quei volti grandiosi bellissimi, fermi nella loro carica protettiva e simbolica eppure capaci di cambiare sempre davanti ai nostri occhi, mutando alla percezione del nostro sguardo in movimento, allo scorrere delle ore, al variare delle ombre. La pietra che cattura e riflette i colori del giorno e della notte crea lo spettacolo, il movimento della scena, tutto muta e si trasforma.

Cosa significa per te fare arte oggi?

Per me, per il mio modo di vedere, fare arte è riuscire a raccontare una storia, tratteggiare un riflesso di un sentire, un non esplicito messaggio, il mistero e il sogno, qualcosa che possa entrare in comunicazione con chi guarda creando una condivisione istantanea, aprendo un varco emozionale, una connessione empatica.

Perché nelle tue opere è così preponderante la figura della donna?

La donna rappresenta l’insieme e il tutto, è circolare, accoglie, protegge, ama e dà la vita, ascolta la sua anima, cattura e percepisce il non visto e il non sentito, sa trovare quel difficile contatto con sé e con gli altri, sa cercarsi e riconoscersi.

La tua è una pittura riflessiva o veloce ed istintiva?

La mia è una pittura riflessiva, capace di tirare fuori una parte di me, che segue un’emozione, un viaggio visionario alla ricerca di ciò che è nascosto, invisibile e proprio per questo è anche istintiva, può partire da un’idea, da un’immagine carismatica capace di fornirmi l’ispirazione per iniziare un nuovo lavoro, ma all’improvviso il movimento cambia direzione, le partiture si mescolano, nuove tracce impreviste appaiono sulla tela, la mente e la mano seguono curiose i mutamenti del processo creativo.

Le tensioni interiori di Elisabetta Martinez, ammorbidite dall’ esperienza e dal tempo, si sono trasformate nel continuum di un “viaggio onirico” con figure sospese tra sogno e realtà, serene e raccolte, icone protette e protettrici, figure che hanno raggiunto la percezione di sé e del proprio essere meraviglioso. Le sue opere manifestano una rappresentazione mai conclusa che lascia allo sguardo e alla mente la possibilità di leggere un’immagine delineata da strutture aperte e dinamiche, attraverso le quali si può cogliere qualcosa di non visto, qualcosa che è in noi stessi e che solo il nostro sguardo interiore può decodificare.