“Il Marocco è un susseguirsi di porte che si spalancano a mano a mano che si avanza. E non si può avanzare se non visitandolo assiduamente, e conservando in sé il desiderio dello stupore, la curiosità di conoscere e di assimilare”. Con queste parole Tahar Ben Jelloun inizia Marocco, romanzo il suo viaggio alla scoperta degli splendori e dei misteri di questo paese.

Proprio per seguire le orme seducenti del grande scrittore marocchino non ho saputo resistere alla proposta di Zio Bici: per la seconda volta sono andata in Marocco con un gruppo di amici ciclisti, tutti con la bicicletta inglese pieghevole, appunto la Brompton, che Zio Bici vende nella sua bottega di Roma.

Prima di iniziare la pedalata abbiamo passato una giornata a Marrakech. Come non perdersi nei suq? E poi ammirare i giardini, i palazzi, le moschee per finire sorridenti davanti a un tè alla menta e a una gustosa insalata marocchina nella Jemaa el Fna, la piazza dei decapitati. Sì, avete letto bene: era qui che nei secoli passati si eseguivano le pene capitali.

Rispetto al mio primo viaggio, nel 1980, ho trovato Marrakech molto più caotica e turistica, ma sempre affascinante. Sono riuscita anche a fare un salto al Dar Chérifa, il caffè letterario e circolo culturale, dove spesso si incontrano artisti e intellettuali del luogo. Non ho avuto però questa fortuna. Certo, non avrei potuto incontrare Tahar Ben Jelloun, il mio preferito - visto che abita a Parigi – ma un incontro con qualche rappresentante della cultura locale mi avrebbe fatto più che piacere. Ritornerò.

La notte l’abbiamo trascorsa all'interno della medina, in un caratteristico riad (è il nome che viene dato agli alberghi all’interno delle dimore storiche), così simile per la sua atmosfera ai racconti dei grandi viaggiatori che vi riposavano al ritorno dal Sahara. Nei giorni successivi abbiamo percorso, parte in bicicletta e parte in auto, un itinerario decisamente articolato: dalla catena montuosa dell’Atlante, attraversato il passo di Tizi n’Tichka a 2260 m di altitudine, scendendo su piste sterrate, siamo giunti alle dune del Sahara nel cuore dell’Erg Chegaga, uno dei maggiori deserti sabbiosi del Marocco.

Entrando in contatto con le persone e mescolandoci con loro - la bicicletta è il mezzo ideale per farlo, credetemi - abbiamo avuto la fortuna di sfiorare davvero l’anima del paese, soprattutto quella delle campagne in cui niente è scritto, tutto riposa nel cuore e nelle memorie, in un tempo sospeso, quasi arcaico. Così mi sono riavvicinata alla cultura berbera che avevo conosciuto nei miei precedenti viaggi, anche in altri Paesi: Algeria, Niger, Libia e Mali... Ho ritrovato il fluire della musica, la ricercatezza dell’artigianato, i costumi tribali, insomma, un enorme patrimonio culturale che rende il Marocco speciale e unico.

L'eleganza e la fierezza innate delle pastorelle berbere, incontrate nel Medio Atlante, mi hanno confermato il ricordo dell'identità di un popolo indipendente e orgoglioso. Nonostante oggi il popolo Amazigh, (nome autoctono dei berberi) - che nelle epoche precedenti all’invasione e conquista araba era felice e libero - viva ora una realtà che lo vede vittima della maggioranza araba al potere, decisamente poco attenta alla cultura berbera. La loro lingua, il tamazight, di origine camitica (non semitica come l’Arabo), con caratteri propri, è stata riconosciuta come lingua ufficiale dal re del Marocco, Muhammad VI, solo nel 2011.

A volte abbiamo pedalato assieme ad alcuni ragazzi, con biciclette scassatissime, anche due per bici, che ci hanno accompagnato a vedere le bellezze locali come quella di Telouet, villaggio sulle montagne dell’Alto Atlante: la kasbah del Pascià el Glaoui, perfetto esempio di architettura berbera. Un ragazzino mi ha accompagnato a vedere la kasbah di Ait Benhaddou situata a 30 km da Ouarzazate lungo il fiume Salt. La kasbah, dichiarata patrimonio mondiale dall’UNESCO, ha ospitato le riprese cinematografiche di numerosi film hollywoodiani, tra i quali Lawrence d’Arabia, Alexander e Il Gladiatore.

Lo scalpitio di zoccoli d’asini e cavalli è stata la musica di sottofondo nei nostri spostamenti senza fretta. II tè alla menta ci ha corroborato. Ricordo in particolar modo quello bevuto a Tinghir nella cooperativa di tappeti gestita da donne: viene versato dopo essere stato mescolato con rito antico e lento e sorbito nei piccoli bicchieri dove il profumo si mescola agli aromi.

A Tamegrute, piccolo villaggio che secondo un cartello stradale visto in loco dista cinquantadue giorni di dromedario da Timbuctu, abbiamo apprezzato le ceramiche cotte nei forni all'aperto e visto gli artigiani all'opera. Avrei voluto comprare una colorata tajine, la caratteristica pentola magrebina, ma non avevo più spazio tra i bagagli; l’avevano riempito due splendidi tappeti di artigianato berbero.

Tamegrute è una tappa importante anche per i pellegrini di cultura islamica, che vengono qui a pregare di fronte alla bella tomba di Mohammed Bou Nasri, fondatore dell’importante Biblioteca Coranica.

Mi è rimasta nelle orecchie la musica che le donne producono nel battere con i sassi la noce dell’Argania spinosa e nel naso l'intensa fragranza del pregiato olio d’argan che si ricava da quella pianta e il delicato profumo della rosa damascena. Nella cooperativa visitata nella valle del Todra ho appreso come la coltivazione e la lavorazione dell’argan siano stati determinanti per l’emancipazione delle donne e per il miglioramento delle loro condizioni di vita e del loro livello culturale. Così come a Lakhmiss Dadès, un sperduto e povero villaggio nella valle del Dadès, una cooperativa agricola di donne, coltivando la pregiata rosa damascena, è riuscita imporsi nonostante la forte cultura patriarcale.

Il Sahara, che in diversi viaggi ho attraversato in lungo e largo, mi seduce sempre, e così è stato anche per l’Erg Chegaga che si trova al confine dell’Algeria. I miei occhi si sono riempiti di sole, albe, tramonti, dune, dromedari, tende, e soprattutto di quella luce che influenza e trasforma i colori e che è unica nel Sahara; la stessa luce che Eugène Delacroix riusciva a catturare, già nell’Ottocento, nei dipinti del deserto del Marocco.

Al tramonto, seduta su un tappeto berbero, ho ripensato a tutte le notti in cui mi sono addormentata in un bivacco cullata da milioni di stelle, intorno al fuoco e con i racconti dei tuareg. Sarei rimasta lì molti più giorni, anche per riposarmi dalla pedalata e a ripensare a tutto quello che avevo visto: i villaggi confusi con il colore delle rocce e della terra, i suq variopinti e animati, le oasi che crescono là dove l’acqua trova un poco di spazio, le gole profonde del Todra che altro non sono che pareti verticali altissime e bellissime formate dal fiume durante i secoli… Poi quel cielo di un bel blu intenso, le capre abbarbicate sui pendii e la gente incontrata, soprattutto i Berberi sempre gentili, sorridenti e accoglienti.

Sorrido ancora ripensando alla curiosità di Fatima, di Selma e di Zineb nel vedermi pedalare quella strana biciclettina che è la Brompton. Io che di anni sul groppone non ne ho pochi. Selma l’ha provata, Mostafa avrebbe voluta scambiarla con un asino.

Viaggiare non c’entra nulla con i tanti o pochi chilometri nei quali ti sposti, ha a che fare col sentire e con la conoscenza. Queste sono le ricchezze di un viaggio.