Mario Monicelli non nacque a Viareggio, come molti negli anni hanno creduto, anche a causa di un equivoco che il noto regista si divertiva ad alimentare, ma a Roma nel quartiere Prati. Ma toscano Monicelli si è sentito e dichiarato per tutta la vita, non solo per il suo carattere arguto, cinico e beffardo come nella migliore tradizione toscana, ma anche perché ha sempre dimostrato una particolare affezione per una terra che gli aveva dato molto e alla quale molto restituì.

Gli anni della giovinezza li passò a Viareggio, dove si era trasferita la famiglia e dove compì gli studi laureandosi a Pisa, dopo un trasferimento di qualche anno a Milano. Il primo incontro con il mondo del cinema avvenne a Viareggio, dove nel ’37 girò il suo primo film, Pioggia d’estate, con lo pseudonimo di Michele Badiek. Di quegli anni ricordò [1]: “In quel periodo a Viareggio, dove vivevo e dove avevo per amici carissimi fin dall’adolescenza i figli di Ermete Zacconi (Beppe, Luciano e Ernes, che poi sarebbe diventata un’eccellente attrice di teatro) girai il mio primo film a 35 mm. Eravamo una masnada famelica di cinema e teatro ed io, con il carisma di chi era stato premiato a Venezia (sia pure nel passo ridotto), ma soprattutto che ero stato terzo o quarto assistente di Gustav Machaty in un vero film, fui designato soggettista, sceneggiatore e regista di un film vero, normale, a 35 mm, con l’apporto e il concorso di mezza cittadinanza. Non dimentichiamoci che eravamo negli anni 1936-1937, e Viareggio era un centro piccolo ma naturalmente avanzato per quei tempi (Lorenzo Viani, Enrico Pea, Repaci e il premio Viareggio, etc.), e inoltre c’era il Carnevale, con un certo numero di maestranze specializzate nella costruzione dei carri e dei fantocci semoventi.

E così che nacque Pioggia d’estate, una storia semi-poetica su di un labile e fugace amore, naturalmente estivo. Ne esiste ancora qualche copia? Chissà. Forse ne conserva una Ernes, che naturalmente, giovane, bella e figlia d’arte com’era, fu subito scelta come interprete femminile. Per il partner maschile prendemmo un caro amico, Raniero Barsanti, noto in spiaggia per la sua avvenenza, divenuto in seguito un importante esponente di una grande impresa di costruzioni per tutto il Sudamerica. Un compagno di università, dell’Università di Pisa, Manfredo Bertini, poi medaglia d’Oro della Resistenza, fu l’operatore, solo perché si dilettava di fotografia; Luciano Zacconi, pittore e scultore di belle speranze, fu eletto scenografo e costumista, e così tutti assieme, amici e conoscenti, dettero una mano alla realizzazione di questo film, organizzato da Beppe Zacconi e Giannetto Guardone, altro amico d’infanzia appassionato e sfaccendato”.

Le prime esperienze cinematografiche menzionate da questo ricordo autobiografico, come la mansione di ciakkista per l’allora noto regista Gustav Machaty, si svolsero a Tirrenia, presso i moderni studios cinematografici Pisorno (dall’unione delle città di Pisa e Livorno che Mussolini avrebbe voluto follemente compiere) e si resero possibili grazie all’amicizia con Giacomo Forzano, figlio del commediografo Giovacchino Forzano che fondò gli studios di Tirrenia tre anni prima di quelli di Cinecittà a Roma. L’imprinting dello spirito viareggino, della tradizione letteraria e teatrale della commedia toscana, e dell’ambiente culturale e naturalistico di questa terra accompagnerà Monicelli in tutta la sua carriera cinematografica.

Sono molti i film che il regista girerà in Toscana. A partire da Amici Miei, pubblicato esattamente 40 anni fa, di cui ricorda è [2]: “Conoscevo bene i due sceneggiatori, Benvenuti e De Bernardi, ed eravamo tutti e tre toscani. Il film era stato ambientato a Bologna, ma io dissi: - No, lo porto a Firenze. I modelli a cui ci siamo ispirati sono toscani, lo spirito è toscano, gli sceneggiatori e il regista sono toscani, non vedo perché dobbiamo farlo a Bologna!-. C’era allora la convinzione che l’umorismo toscano non facesse ridere, perché è un tipo di umorismo molto cattivo e pungente. Dopo il successo del film, sono spuntati fuori un sacco di toscani: da Benigni ai Giancattivi a Nuti, e fu sfatata la leggenda che non si poteva far ridere in toscano”.

Anche il sequel Amici miei Atto II sarà girato quasi totalmente in Toscana. Così come L’armata Brancaleone, girato in gran parte nella Maremma laziale, ma anche in Val d’Orcia e nelle Crete senesi. Interamente ambientato in un casale della campagna toscana, a Villa Torrisi, una fattoria nell’entroterra di Grosseto (anche se in realtà fu girato a Stignano nell’alto Lazio) è il film Speriamo che sia femmina, il racconto della decadenza di una famiglia “salvata” dalle componenti femminili del clan. Viaggio con Anita, film del 1978 scritto anche da Federico Fellini, è girato ad Orbetello, sull’isola del Giglio, nel livornese e a Pisa. Cari fottutissimi amici è totalmente ambientato in Toscana e narra il viaggio di una sgangherata compagnia itinerante nella Toscana dell’agosto del 1944 durante la Liberazione. Le location dove è stato girato sono molte: a Firenze in piazza del Carmine, borgo Tegolaio e via dell’Erta Canina; a Abbadia Isola e Monteriggioni; nel deserto di Accona, nel cuore delle Crete senesi e a Colle Val d’Elsa.

Monicelli possedeva una casa in Maremma, sul lago di Burano, dove soleva ritirarsi con la compagna, artista e illustratrice, Chiara Rapaccini che ne scrive alcuni ricordi nel suo libro autobiografico La bambina buona. Nella cui appendice si trova un breve racconto fino ad allora inedito scritto dal regista in età avanzata. Il titolo ricorda uno dei personaggi dell’Armata Brancaleone alle Crociate interpretato da Gigi Proietti: Pattume; ma in realtà il nome si riferisce a un cane nel ricordo di una Viareggio d’altri tempi, quelli della giovinezza del regista.

Pattume

di Mario Monicelli

Il mio amico Giorgio aveva un cane di nome Pattume. Era un animale grosso e piccolotto quasi sempre di cattivo umore. Lui e il suo padrone si incamminavano dalla casa vicino al mare, lungo il viale La Passeggiata fino al molo. Lui qualche metro dietro al suo padrone silenzioso senza mai distrarsi, soffermarsi o fiutare. Pattume non fiutava mai nulla.

Arrivati alla panchina di fronte al caffè Margherita si separavano. Pattume tirava dritto verso misteriose avventure, Giorgio restava in attesa degli amici con i quali faceva notte alta. Tutti senza una lira ammucchiati su una panchina. C’eravamo io, Raniero fratello di Giorgio, Galliano detto Miccichè che poi era il suo cognome, figlio del comandante del porto, Martone, chissà perché, visto che era piccolo e di salute malferma. Il figlio di un trabaccolaio, lui sì grande e grosso, e un ebreo vestito da adulto con una lobbia, una giacca a due petti, pantaloni con risvolto e scarpe di cuoio. Più altri, Oberdan e Fabietto, due avventizi, che arrivavano quando le famiglie gli davano la libera uscita serale. Si stava lì fino a notte alta sotto qualsiasi tempo, acquate, libecciate o afa di scirocco a discutere accaniti se il viaggio di andata fino a Lucca consumava più benzina di quello di ritorno.

Intanto si aspettava che arrivasse Artico, un lupo di mare secondo noi rotto a tutte le tempeste, che ci raccontava storie incredibili di mare e di marosi e notti affascinanti di taverne e puttane, però Artico non arrivava quasi mai. Arrivava sempre invece Pattume. Si fermava ritto sulle gambe corte a fissare Giorgio per due secondi prima di emettere un abbaio breve e secco. Il suo compagno si incazzava: “Che vuoi. Non lo vedi? Non è neanche l’una. Vai da solo, va’. Io sto con gli amici, vengo dopo, cammina”. Senza rispondere Pattume si allontanava imperturbabile verso la fermata del 3 notturno. Lì aspettava ritto in attesa senza sedersi. Pattume non si sedeva mai. Il 3 notturno arrivava traballante, Bertuccelli faceva salire Pattume e ripartiva con un soprassalto fino al termine della Passeggiata, piazzale Marco Polo, dove Pattume scendeva e si avviava nella notte verso le cabine del Bagno Barsanti e Figli.

[1] M. Monicelli, L’arte della commedia, a cura di Lorenzo Codelli, Bari, Edizioni Dedalo, 1986, pag. 17
[2] Ibidem, pag. 96