La vita sul nostro pianeta è il frutto di 4 miliardi di anni di evoluzione e se ci guardiamo intorno, scopriamo che la diversità è un “collante biologico” di grande efficacia operativa. Del resto anche la moderna metagenomica (lo studio delle sequenze di DNA delle popolazioni batteriche) considera il nostro corpo alla stregua di un sofisticato ecosistema, dove la componente microbica, che vive in simbiosi con vari organi e apparati, emerge in tutta la sua evidenza: basti pensare al ruolo svolto dalla flora batterica intestinale per la salute dell'organismo. Numeri alla mano, dal nostro profilo genetico totale risulta che la componente batterica è assolutamente schiacciante, infatti, la sua percentuale si aggira intorno al 99%; in altre parole, se centrifugassimo il nostro corpo, scopriremmo che solo una cellula su dieci è di origine umana.

Per la maggioranza delle persone il concetto di biodiversità appare scontato e richiama alla mente una dimensione sconfinata, paragonata a un bene inesauribile, perfettamente adattabile alle esigenze umane, da cui potere attingere risorse in modo incontrollato. Purtroppo le pressioni antropiche che vengono esercitate sulla Natura sono in forte crescita e rappresentano una grave minaccia per tutte le comunità di organismi viventi (fitocenosi e zoocenosi) e per gli ecosistemi di cui fanno parte.

Ogni modificazione di un habitat può provocare delle conseguenze negative su vasta scala e spesso l'assenza di qualsiasi piano strategico che ponga il tema della “sostenibilità” al centro delle politiche economiche, dimostra quanto l'antropocentrismo (l'uomo al centro del creato) sia così profondamente radicato nella cultura occidentale.

Tale atteggiamento trova le sue radici storiche nella grande trasformazione culturale segnata dall'avvento dell'agricoltura e dell'allevamento, avvenuto all'inizio del periodo neolitico (circa 10.000 anni fa). Il processo di modernità e l'estrema specializzazione delle conoscenze hanno allontanato l'uomo dalla Natura e da una visione sistemica della vita; per questa ragione non ci sentiamo più legati agli altri esseri viventi, consideriamo il nostro corpo come un semplice assemblaggio di pezzi e ignoriamo che il mondo in cui viviamo è una rete di sistemi complessi, dove il Tutto è maggiore della somma delle parti. Non è un caso che oggi tra le principali cause responsabili del progressivo e inarrestabile degrado ambientale (deforestazioni, diffusione delle monocolture, inquinamento da pesticidi, sfruttamento e maltrattamento degli animali, emissione di gas serra, cambiamenti climatici, ecc.), figurino proprio l'agricoltura e gli allevamenti intensivi. Da una parte conosciamo perfettamente i meccanismi genetici e le interazioni molecolari che governano il mondo vegetale, dall'altra continuiamo a essere insensibili nei confronti delle piante, soprattutto per quanto riguarda il ruolo che svolgono nella nostra vita.

Il 98% della biomassa, cioè di tutto ciò che è vivo su questo pianeta, è composto di materiale vegetale, pertanto una diminuzione di questa preziosa materia organica rischia di compromettere in modo irreparabile l'equilibrio dell'intera biosfera. Così non si può osservare senza apprensione l'incessante incremento dell'urbanizzazione e la tendenza a consumare suolo in maniera immotivata rispetto ai bisogni reali: una pratica avvalorata dalla mentalità corrente, secondo la quale la vegetazione svolge un ruolo neutrale e in base alle circostanze viene considerata un semplice sfondo inerte oppure un accessorio architettonico con funzione riempitiva. È forse un caso che in quasi tutte le lingue, l’espressione “essere un vegetale” indichi un'esistenza ridotta al minimo?

Spesso dimentichiamo che le piante rappresentano la nostra principale fonte di sostentamento, infatti, oltre a fornire l'ossigeno necessario alla respirazione, apportano cibo, medicine ed energia (sono l'anello di congiunzione tra il Sole e la Terra e partecipano alla formazione dei combustibili fossili). In passato, questo atteggiamento di chiusura ha alimentato pregiudizi e diffidenze anche nel mondo scientifico, penalizzando gli sforzi di molti ricercatori che lavorano nell'ambito di una particolare disciplina, chiamata neurobiologia vegetale (tra questi vi sono Stefano Mancuso, Monica Gagliano, Rick Karban, František Baluška, Daniel Chamovitz e altri).

Gli organismi vegetali, pur essendo privi di apparato nervoso, hanno comportamenti paragonabili a quelli animali, soprattutto per quanto riguarda l’apprendimento, la memoria, la capacità di prendere decisioni e di relazionarsi con l'ambiente esterno. Nel corso di milioni di anni hanno imparato a rintracciare l'acqua, a percepire l'umidità e la presenza di campi elettromagnetici, a misurare il senso della gravità e i gradienti chimici, a distinguere gli amici dai nemici e a sviluppare attività collaborative.

Per fortuna le cose stanno cambiando e l'ipotesi che le piante possano essere dotate di una forma d'intelligenza ha trovato recentemente alcune interessanti conferme sperimentali. I risultati di queste nuove ricerche sono il frutto della geniale fusione di conoscenze provenienti da varie branche della scienza che riguardano la teoria dei “sistemi dinamici” (caos, geometria frattale, strutture dissipative, ecc.), il “calcolo distribuito”, i “fenomeni di sciame” e i modelli d'intelligenza collettiva che regolano il comportamento degli stormi e degli insetti sociali.