La storia non si scriva mai “una volta per sempre”. È un insegnamento che i popoli, e ancora di più i parlamenti e i governi, dovrebbero tenere ben presente. Illudersi del contrario può portare a tragiche conseguenze. Nel corso dell’articolo si cercherà di chiarire quali esse possano essere e quali siano quelle già avvenute.

Pensare che il passato, una volta messo dietro le spalle, sia finito per sempre, relegato nelle pagine della storia, da ignorare nell’agire politico, tutto proiettato nelle esigenze del presente (soprattutto quelle elettorali e comunque della ricerca del consenso), è un gravissimo errore, che si rischia di pagare assai caro. I mutamenti politici non segnano mai una cesura netta, una discontinuità definitiva rispetto al passato, neppure quando seguono eventi drammatici, come la fine di una guerra perduta in maniera disastrosa (è il caso di Germania e Italia dopo la Seconda guerra mondiale), e tanto meno nei casi di passaggi meno traumatici, di lenta evoluzione verso la democrazia, il progresso, la crescita economica. Ciò non tanto per la permanenza dei soggetti che di quelle idee sono stati sostenitori, se non protagonisti politici di rilevo, destinati a venir meno nell’arco degli anni, ma delle idee, anche se uscite sconfitte dalla storia.

Il nuovo non è mai del tutto nuovo, esso, al contrario, risulta essere una sorta di impasto tra il presente e i residui del passato, all’inizio isolati e silenti, ma sempre latenti, sempre pronti a risorgere appena le condizioni politiche, economiche e sociali, con il loro inevitabile mutamento, aprano spazi, consentano il loro riemergere. Anche se potevano apparire accantonate non sono mai dimenticate del tutto e sepolte per sempre. L’impasto di vecchio e il nuovo è la vera composizione del presente, le cui rispettive dosi possono continuamente variare, in relazione alle contingenti vicende politiche e sociali nazionali e internazionali.

La conoscenza del passato, dei suoi errori e orrori, deve invece divenire la premessa ineludibile per la costruzione del futuro. Ignorare gli errori del passato ne provoca la ripetizione. Ed è questo che sembra caratterizzare gli anni più recenti della storia, in Europa e, in maniera del tutto imprevedibile, negli Stati Uniti. Per dirla con Baumann abbiamo invertito la rotta e navighiamo verso il passato, o, se si preferisce, camminiamo a ritroso verso il futuro con la testa rivolta all’indietro, con il rischio di andare a sbattere. Il denominatore comune è quello della nostalgia degli stati nazionali del Novecento, con l’ideologia fortemente autoritaria e identitaria, permeata a sua volta di rimpianto verso un passato idealizzato (l’antica Roma per il fascismo, la pura razza ariana per la Germania), con le esperienze similari di Ungheria, Romania, Spagna, Portogallo e Grecia. Oggi è il passato che avanza, con i suoi fantasmi. Sorge in Europa una sorta di “internazionale autoritaria”, un’onda nera che dalla Turchia risale sino all’Ungheria, la Polonia, la Repubblica Ceka, lambisce l’Austria, l’Olanda, il Belgio, la Danimarca, la Scandinavia, la Francia, il Regno Unito, l’Italia, e in Germania entra in Parlamento con poco meno di cento rappresentanti.

Come è possibile che tutto questo sia potuto avvenire, in breve tempo, proprio in Europa nella quale appariva ormai indiscussa la stabilizzazione di democrazie solide, sorrette da fondamenta costituzionali indiscusse, come la separazione dei poteri, il rispetto dei diritti di libertà, di libera espressione del pensiero, di tolleranza e di solidarietà, standard democratici ulteriormente rafforzati dalla comune appartenenza all’UE, e presidiati dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali?

Le cause sono molteplici e sarebbe impossibile esporle tutte in questa sede, ma certo le più importanti sono quelle di tipo economico e sociale, fonte di disagio diffuso, perdita di potere d’acquisto dei ceti medi, incertezza del futuro, perdita di fiducia nei confronti delle classi dirigenti e politiche nazionali, negli Stati Uniti come in Europa, nella quale si è aggiunta anche la sfiducia nei confronti della UE, intesa come superstruttura tecnocratica, fonte di sperequazioni tra le economie del nord Europa e quelle del sud. Un disagio reale, dovuto in buona parte al modello di capitalismo “finanziario”, che ha sostituito quello industriale, alla delocalizzazione delle imprese, al progressivo indebolimento del Welfare caratteristica principale del modello politico europeo lungo la seconda parte del secolo scorso. A ciò si è aggiunto, anche grazie ad una prolungata, quasi ossessiva, reiterazione di campagne mediatiche, l’odio contro la “casta”, termine prima riservato al solo ceto politico, ma ben presto esteso anche alla burocrazia, alle classi dirigenti di ogni genere, quindi magistratura, mondo accademico, scientifico, culturale. Una sfiducia crescente, una delegittimazione capillare, che ha portato alle polemiche contro i “professoroni”, al rifiuto dei vaccini, come di ogni intermediazione (partiti, sindacati, organizzazioni di categoria), tutti accomunati dal sospetto di essere funzionali agli interessi delle multinazionali, delle banche, del potere politico.

Alla ricerca di interlocutori nuovi e quindi per ciò solo affidabili, hanno risposto in tutta Europa, movimenti, partiti, caratterizzati da forte struttura personalistica, dalla presenza carismatica di un capo, libero da condizionamenti ideologici e da burocrazie di partito, interlocutore diretto delle masse, in grado di raccogliere i sentimenti, la rabbia, la volontà di cambiamento (poco importando la direzione che questo potrà prendere in futuro). Per stimolare la rabbia e renderla carburante politico, era necessario rivolgerla contro un obiettivo, che fosse capace di aggregare, un obiettivo condiviso, visibile. Non potevano essere le banche, le istituzioni, la politica, sistemi delegittimati ma forti, infungibili, sotto qualsiasi bandiera. Occorreva qualcosa di diverso.

Le contingenze della storia, offrirono i nuovi obiettivi, e furono su questi che l’internazionale nera fece fronte comune, traendone vantaggi inimmaginabili. La paura del terrorismo, dell’invasione dei migranti. Due fenomeni ben distinti, che creano problemi, certo, ma non giustificano terrore. Le migrazioni verso l’Italia e l’Europa erano iniziate da tempo e senza suscitare particolare paura per la sicurezza. Prima dalla vicina Albania, poi, con l’apertura delle frontiere, anche da Romania, Polonia, Moldavia, Bielorussia, Ucraina. Non che mancassero fenomeni criminali riconducibili a soggetti provenienti da questi paesi. Tutt’altro. La criminalità albanese, in particolare, entrò presto nel giro del traffico di droga e dello sfruttamento della prostituzione, quella rumena nel giro di rapine, prostituzione, reati informatici e l’elenco potrebbe continuare.

Si misero insieme, in un mix pretestuoso quanto ingiustificato, migranti e terrorismo, per rendere il primo fenomeno causa e strumento del secondo. La religione islamica diviene sinonimo di terrorismo, i migranti dalla pelle nera a crimini, soprattutto stupri, entrambi portano alla perdita dell’identità nazionale, alla disoccupazione crescente, al degrado delle città, allo scontro tra culture. Paure inculcate con anni di ossessiva ripetizione di slogan, di invettive, di sfrontate esibizioni di razzismo e di violente accuse nei confronti degli avversari politici che cercavano invano di riportare la discussione su binari di razionalità e di confronto. Cresce l’esigenza di individuare un capo, un uomo solo al comando, che sia in grado di raccogliere il consenso su pochi ed efficaci slogan: chiudere le frontiere, erigere se del caso barriere di filo spinato, di guardie armate, di flotte navali, ricacciare indietro gli invasori, la cui qualificazione di clandestini conferisce un carattere di illegalità inesistente, visto che il termine viene dal latino “clam”, che si traduce “di nascosto”. Dunque non può essere clandestino, ma solo irregolare, chi non vede l’ora di consegnarsi alle autorità del paese nel quale arriva stremato per trovare salvezza, assistenza, protezione. (Diversa è la condizione di chi si introduce in un determinato paese di nascosto, attraverso gallerie, sottofondi di camion, stive di navi, passaporti e visti falsi e via dicendo).

Fattore determinante alla crescita del consenso intorno ai temi del razzismo, dell’intolleranza, della diffusione delle paure (vaccini, neri, terroristi) si deve alla possibilità di ciascun individuo di comunicare in rete, attraverso tutti gli svariati, strumenti di comunicazione via web (social network, WhatsApp). Si tratta di messaggi prevalentemente anonimi, che consentono, in poche righe, prive di qualsiasi tipo di argomentazione (la brevità del messaggio non lo consente, né lo richiede) di esternare rabbia, disprezzo, odio, insulti volgari, sessisti, razzisti, omofobi). Una massa informe, composta da individui che non hanno bisogno di alcuna forma di aggregazione se non quella di leggersi a vicenda e di rafforzarsi reciprocamente nelle proprie convinzioni.

La circostanza che anche capi di governo, capi di stato, addirittura pontefici, facciano ormai abitualmente uso di tali strumenti per comunicare decisioni politiche anche gravi e complesse, aggiunge inquietudine e perplessità per l’odierna regressione del linguaggio politico verso improvvisazione e irrazionalità. I partiti e i movimenti destinatari di questi consensi sono correttamente definiti populisti, e avendo necessità di spingere sempre più il piede sull’acceleratore della rabbia, dell’irrazionalità e dell’intolleranza, imboccano una deriva para-fascista, composta da nazionalismo identitario, suprematismo bianco, negazione delle regole democratiche, di solidarietà, di tolleranza. Nessuno di questi movimenti pensa ad una mutazione violenta del regime politico dei paesi in cui agiscono; nessuno insomma pensa ad un colpo di stato; usa lo strumento elettorale per acquisire consenso sempre crescente e in prospettiva per arrivare al governo.

“Il fascismo travestito da democrazia diretta”, questa sembra la definizione migliore per descrivere sinteticamente la deriva verso cui si muove una consistente parte dell’Occidente democratico. Poco importa se le paure indotte siano inconsistenti, che la sicurezza pubblica viva oggi una condizione nettamente più favorevole rispetto agli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, che il numero degli omicidi, delle rapine, dei furti in abitazione siano in costante riduzione, che il numero delle vittime di terrorismo islamico in Europa dal 2010 al 2017 è di 352 unità e che nessuno di questi atti terroristici è avvenuto nel nostro paese (anche se vittime italiane si sono avute negli attentati terroristici avvenuti a Parigi, Berlino, Nizza, Bruxelles). I turisti hanno affollato il nostro paese nell’anno in corso perché ritenuto uno dei più sicuri al mondo. Il numero delle vittime di stupro in Italia, secondo dati del 2013, è tra i più bassi d’Europa, il maggior numero si registra, non senza sorpresa, nei paesi scandinavi e in Francia, seguiti da Germania, Belgio e Irlanda, eppure la sindrome di stupro da migranti è altissima, forse per la risonanza mediatica riservata ai pochi casi avvenuti o, più probabilmente, per atavico pregiudizio razziale.

Ma che importa? Non è la razionalità che guida i sentimenti delle masse e questo lo sanno bene gli uomini alla guida dei partiti populisti d’Europa, che su queste paure ingrassano i propri consensi. Persino quando le recenti misure del governo italiano hanno ridimensionato drasticamente il numero degli sbarchi di migranti in Italia, viene alimentato il convincimento che si tratti di fenomeno in crescita. I migranti sarebbero ospitati in hotel di lusso, riceverebbero 35 euro al giorno, e altro ancora. Tutte notizie false e tendenziose. I migranti sono ospitati in centri di accoglienza, simili a luoghi di detenzione (e quando lavorano lo fanno in regime di sostanziale schiavitù); 35 euro al giorno sono l’importo che i gestori dei centri di accoglienza ricevono dallo Stato per ospitare, nutrire e curare i migranti, ma ne spendono molto meno, il resto è il profitto percepito da italiani sulla pelle dei migranti e non viceversa.

Se ci spostiamo negli USA, non possiamo che sorprenderci per la paura suscitata dai migranti, quando i morti da episodi di violenza con uso di armi da fuoco sono in rapporto di 1 ogni mille abitanti (circa 33.000 all’anno), se è costante il pericolo che gli studenti possano essere uccisi da coetanei armati di armi micidiali all’interno delle aule scolastiche, se il tiro a bersaglio di Las Vegas ha determinato la morte di 59 persone e il ferimento di altre cinquecento. Non è scattata alcuna paura e le fabbriche di armi continuano a vendere armi da fuoco di enorme potenza di fuoco, senza limiti. Nessuna paura neppure dopo la minaccia dell’uso di armi atomiche, utilizzata con disinvolta irresponsabilità dal presidente in carica, come ordinario strumento di risoluzione di problemi politici, con il rischio di conseguenze devastanti per il mondo intero. Populismo, nazionalismo, totalitarismo, questo è il percorso che conduce alle guerre; mai un paese democratico ha dichiarato guerra ad altro paese democratico. È un privilegio riservato alle dittature.