Castigat ridendo mores” scriveva nel diciassettesimo secolo il letterato francese J. De Santeuil. Con questa frase latina si descrive in modo breve, ma efficace, il carattere proprio della satira. Un genere artistico che affonda le proprie radici nella letteratura omerica dell’Antica Grecia, dove però aveva sembianze ancora poco nitide, spesso confuse e mescolate alla comicità. Non a caso, pare che le prime tracce di satira siano rinvenibili nel poema comico Margite (attribuito al vate), così come nei versi giambici di Archiloco, nei Silli di Senofone e nell’opera di Ipponatte. Tuttavia, pur se la Grecia le diede i natali, è a Roma che la satira poté concretamente affermarsi e svilupparsi come stile a sé stante. “Satura quidem tota nostra est” (trad. “Certamente tutta nostra è la satira”), affermava con malcelato orgoglio Quintiliano e, infatti, furono proprio i poeti latini a darle una solida identità. A partire da Ennio, opere satiriche si susseguirono riscuotendo grande successo: dalle Saturae in trenta libri di Lucilio ai Sermones di Orazio, da Persio a Seneca, passando per i mordaci esametri di Giovenale, gli epigrammi di Marziale e il celebre Satyricon di Petronio.

L’odierno nome della satira ha origini tutte latine, derivando dalla cosiddetta satura lanx, piatto colmo dei migliori prodotti della terra, che i Romani solevano offrire ai numi nelle cerimonie più solenni. Ebbene, come quel piatto pieno di frutti, così la satira rappresenta un “genere sui generis”, che potremmo immaginare come un grande contenitore, dove trovare un ricco e vario insieme di argomenti. L’oggetto della satira è mutevole e il bersaglio dell’autore cambia a seconda delle circostanze, degli eventi e dei fini. Protagonista della satira nella Grecia di Omero poteva esserlo l’uomo comune, nullafacente e stolto, mentre nei versi di Giovenale lo erano le donne emancipate e senza pudore. Il contesto cambia ancora con Petronio, dove al centro della scena c’è il ricco Trimalcione, coi suoi banchetti luculliani dai caratteri grotteschi.

Eppure, nonostante la sua ecletticità, nel corso degli anni la satira ha sempre conservato un tema molto caro al suo obiettivo: la politica. Si tratta di un argomento trasversale, fil rouge tra l’ottavo secolo avanti Cristo e i giorni nostri, dall’opera del greco Aristofane ai programmi tv di Maurizio Crozza. Mettere i potenti e l’attività governativa al centro dell’attenzione e del dibattito pubblico significa (e significava) annientare il classismo e trasformare la statica piramide sociale in una figura piana, che pone tutti gli individui allo stesso livello. In quest’ottica, la satira – in particolare il diritto di satira, assieme ai diritti di critica e di cronaca – diviene un potente strumento di democrazia, dando concreta attuazione al principio di uguaglianza, sancito nell’art. 3 della nostra Carta costituzionale.

Per via della sua congenita natura, la satira rappresenta a tutti gli effetti una forma d’arte. L’autore di opere satiriche (siano esse scritte, orali o raffigurative) è un vero e proprio artista. Come uno scultore, trae elementi e dati di fatto dalla realtà che lo circonda e su questo marmo grezzo inizia il proprio lavoro. Prima scalpellando e poi cesellando, l’autore realizza e offre al pubblico la sua creazione. Per tale ragione, il nostro ordinamento offre una duplice tutela costituzionale al diritto di satira. In primis, esso trova fondamento all’interno dell’art. 21, che garantisce la libera manifestazione del proprio pensiero; in secondo luogo, è ampiamente tutelato dall’art. 33, che afferma la libertà dell’arte.

Ordunque, alla luce di questa sua posizione nel panorama giuridico – e per via della sua poliedrica natura – torna decisamente utile la definizione di satira fornita dalla Corte di Cassazione con sent. n. 5499 del 2014. “La satira è configurabile come diritto soggettivo di rilevanza costituzionale […] che tutela la libertà dei messaggi del pensiero. Il diritto di satira ha un fondamento complesso individuabile nella sua natura di creazione dello spirito, nella sua dimensione relazionale, ossia di messaggio sociale, nella sua funzione di controllo esercitato con l'ironia e il sarcasmo nei confronti dei poteri di qualunque natura. Comunque si esprima e, cioè, in forma scritta, orale, figurata, la satira costituisce una critica corrosiva e spesso impietosa, basata su una rappresentazione che enfatizza e deforma la realtà per provocare il riso”. E, in particolare, riguardo il fine ultimo di questo genere, è ancora più pregna di significato l’antecedente pronuncia della Suprema Corte, che con sent. n. 9246 del 2006 descrisse la satira come “quella manifestazione del pensiero (talora di altissimo livello) che nei tempi si è addossata il compito di castigare ridendo mores; ovvero, di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene”.

Trattando del diritto di satira, è quasi doveroso considerare la rilevanza assunta da questo genere in cruenti episodi di cronaca, che hanno scosso l’opinione pubblica nazionale e internazionale. Come molti ricorderanno, nella giornata del 7 gennaio 2015 la redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo fu assaltata da un commando armato di kalashnikov. Durante l’irruzione vennero assassinate dodici persone, inclusi il direttore del giornale e collaboratori storici della testata, che nello stesso giorno aveva pubblicato online una vignetta raffigurante al-Baghdadi, leader del sedicente Stato Islamico. L’attentato scatenò numerose discussioni circa la libertà di stampa e la libertà religiosa, portando a molteplici e disparate conclusioni. La faccenda non è di facile soluzione e pone diverse criticità in ambito giuridico. Traslando la questione entro i confini nazionali, la satira religiosa esige un bilanciamento fra valori costituzionali, perché coesistono due libertà: una artistica (art. 33) e una religiosa (art. 19). Occorre quindi sondare il terreno per scovare il confine tra i due interessi in gioco e chiedersi: come e quando la libertà dell’arte può prevalere sul sentimento religioso?

Per scoprirlo bisogna considerare, caso per caso, il contesto in cui si inserisce l’opera satirica e comprendere se essa possa effettivamente qualificarsi come tale o, invece, rivelarsi come mera offesa, integrando il reato di vilipendio di una confessione religiosa. Nonostante la sua attualità, il problema resta ancora aperto, ma un valido punto di partenza per la sua soluzione potrebbe ritrovarsi nella distinzione tra offesa e diritto di satira, il cui discrimen va rinvenuto nei fatti di cronaca. Sono questi ad autorizzare il messaggio satirico e a giustificare la prevalenza della libertà artistica su quella religiosa. In conclusione, come spiegato sul portale Difesa dell'informazione: “quanto più la satira è collegata a vicende attuali e di sicuro interesse pubblico, tanto maggiore è la probabilità che il contenuto del messaggio satirico risulti in coerenza causale con la dimensione pubblica del suo destinatario. Coerenza che, al contrario, non può rinvenirsi in […] vignette avulse da qualsiasi contesto di cronaca”.

Tuttavia l’interrogativo resta in sospeso e ancora tanti continuano a domandarsi se questo basti a legittimare il pubblico ludibrio di personaggi, simboli ed entità di culto. La questione si sposta inevitabilmente dall’ambito strettamente giuridico a quello sociale, introducendo il concetto di tolleranza e coinvolgendo il principio di reciprocità fra culture. La questione assume un aspetto sempre più intricato, periglioso e delicato. Come notò Karl Popper in un suo paradosso, “la tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l'illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi”.