Il profondo legame intercorso tra scelta sacerdotale e vocazione alla cura attraversa la storia delle donne, accomunando esperienze diversissime e rimanendo, tuttavia, una costante straordinaria del contributo femminile alla medicina. Sebbene l’immaginario comune identifichi il sacerdozio femminile con la rassegnazione alle crude ragioni della legge famigliare, è pur vero che il monastero, nel passato, ha rappresentato per le donne un’opportunità rara di emancipazione dai ruoli tradizionali della loro identità sociale, funzionali al matrimonio e alla maternità. Una felice condizione per quegli spiriti indomiti, assetati di conoscenza e insofferenti a una vita sottomessa alle regole maschili, che scelsero di aprire, attraverso la chiusura al mondo, le porte di una libertà spirituale e intellettuale altrimenti impensabile.

Già nel mondo classico lo status sacerdotale rappresentava per una donna l’unica opportunità di esercitare una funzione incisiva a livello sociale. Il privilegio di questa leadership spirituale le consentiva di mescolarsi al mondo maschile nella partecipazione a momenti della vita pubblica convenzionalmente preclusi alla comunità femminile. La consacrazione aveva il potere di abbattere barriere culturali impensabili e quasi annullare l’identificazione sessuale, concedendo alla donna di superare il naturale stato fisiologico di inferiorità. A una condizione, però: che si mantenesse vergine. Questo presupposto essenziale, ben lungi dall’essere esclusivo appannaggio della teologia cristiana, ha radici profonde nella tradizione religiosa greca e romana, per la quale il rispetto della continenza sessuale durante il periodo dedicato al servizio sacro era l’elemento chiave che consentiva al mondo maschile di elevare la donna a un piano di parità, proprio attraverso il suggello dell’inaccessibilità del suo corpo. Un corpo le cui funzioni sessuali costituivano il perno stesso di un’organizzazione della società, della famiglia e del diritto, che relegava la donna all’esercizio delle funzioni riproduttive, e di fatto la estrometteva da ogni altro ruolo.

Nell’antica Grecia solo le sacerdotesse potevano assistere da spettatrici ai giochi olimpici, rituale sociale rigorosamente destinato a un pubblico maschile. A Roma, il caso delle Vestali è emblematico. Ministre dell’antichissimo culto della dea Vesta, godevano di uno status giuridico sorprendentemente libero ed emancipato che permetteva loro di affrancarsi, uniche tra le donne romane, dalla potestas maschile, attraverso il rito dell’emancipatio, sancita al momento della presa dei voti. Questa conferiva loro l’inviolabilità della persona, unita a privilegi quali la possibilità di disporre dei propri beni in modo autonomo, di fare testamento, nonché di mostrarsi in pubblico non accompagnate. La parificazione della donna consacrata, sul piano intellettuale e della capacità di azione, costituirà un’eredità importante nel momento del passaggio dalle religioni pagane al cristianesimo. Ne troviamo traccia anche nelle speculazioni teologiche dei primi padri della Chiesa, nei cui scritti emerge come quando una donna sceglie la strada “fisiologica” del matrimonio e della maternità, rimanga mulier, ma nel momento in cui intraprende il cammino che la porta a servire Cristo possa anche definirsi vir. La revisione cristiana del contributo femminile comportò necessariamente una conflittuale verifica del ruolo sociale della donna stessa, dove ancora una volta la necessità di un oblio delle funzioni sessuali ha rappresentato l’unico spiraglio possibile verso il raggiungimento di un’agognata uguaglianza. Tale era il tributo da sacrificare all’unico modello di virtù femminile proposto dalla teologia, quello di Maria, carico del gravoso fardello della castità.

Il vincolo strettissimo tra sacerdozio femminile e vocazione alla cura è un altro grande tema che accomuna il paganesimo precristiano alla nuova religione. Fin dai tempi in cui le comunità sacerdotali femminili si riunivano intorno ai templi delle antiche dee salutari, delle quali raccoglievano le profonde eredità sapienziali, le religioni hanno affidato alle donne la preparazione dei farmaci e l’accudimento dei malati. Il culto mesopotamico di Ishtar, quello di Iside in Egitto, quello di Bona Dea in ambiente italico, declinano in luoghi e tempi diversi il legame imprescindibile tra sacralità femminile e religione. In questi antichi templi della medicina si allestivano i primi laboratori farmaceutici e i primi ospedali.

Nel momento di passaggio dal paganesimo alle prime forme di cristianesimo il processo di trasformazione e appropriazione di simboli e tradizioni fu particolarmente fecondo. La forza di attrazione di questa rivoluzionaria proposta religiosa ed etica aveva trovato terreno fertile proprio in quell’universo femminile che negli ultimi secoli dell’impero romano si era mostrato palesemente attratto dai culti aperti alla rivalutazione del ruolo delle donne e dei compiti anticamente attribuiti alla polarità del femminile, come dimostra il grande successo del culto di Iside, dea straniera servita da sacerdotesse curatrici. Pur nella sostanziale diversità, entrambe le religioni interpretavano il bisogno di una nuova trascendenza, affidata a una divinità che sapesse prendersi in carico l’essere umano in quanto individuo, superando disuguaglianze sociali e di genere, consolandolo nel suo destino di sofferenza e infondendo la speranza in una vita ultraterrena. Molte donne che anelavano a una condizione di emancipazione personale colsero in queste nuove istanze un’opportunità di liberarsi dagli stereotipi dei ruoli tradizionali e dalla signoria delle figure maschili della famiglia.

Le prime donne romane convertite al cristianesimo si rivelarono fortemente votate a un attivismo prestato al servizio del prossimo, e così la dedizione alla cura dei deboli riemerse nelle prime comunità insieme alla pratica medica o infermieristica. Alcune figure di donna si distinsero per la forza di una scelta totalizzante: tra queste, le sante Fabiola e Radegonda propongono un modello che le accomuna in un’adesione che potremmo definire vocazionale, in quanto parte integrante di un percorso di dedizione assoluta, che si riproporrà nel tempo con modalità tipiche e ricorrenti.

Fabiola, nobile fanciulla della gens Fabia, una delle più antiche famiglie romane, si era votata alla vita ascetica dopo l’esperienza di ben due matrimoni; venduti tutti i suoi averi e le sue proprietà, spese il ricavato a beneficio dei poveri e nella fondazione di un hospitium, intorno al quale andò a raccogliersi un circolo di donne accomunate dallo stesso anelito vocazionale. Nel servizio speso per i più umili Fabiola non disdegnava il contatto diretto con gli orrori della malattia e della miseria. Riuniva e assisteva personalmente i bisognosi raccolti sulla strada, li trasportava a forza di braccia, ne toccava piaghe e ferite, imboccava coloro che non potevano cibarsi autonomamente. L'atto di umiltà e altruismo, espresso attraverso l'accettazione del contatto corporeo con il malato, prefigura le modalità di altre sante curatrici della storia del cristianesimo, e si fa atto d'amore, di espiazione, di dono totale a Dio. San Girolamo, che nei suoi scritti ci ha consegnato un ritratto vivido della santa, riconoscerà che Fabiola era in grado di sopportare cose che “nemmeno gli uomini” potevano sostenere. Ma non era forse proprio la sua natura femminile e spirituale al contempo a renderla più forte innanzi alla consistenza corporea della sofferenza? Una donna, abituata a fare i conti quotidianamente con un corpo che richiede un’attenzione vigile e che si esprime attraverso i suoi cicli e i suoi messaggi, sa toccare le piaghe altrui senza provare terrore per la malattia.

L’esempio di Radegonda, maturato due secoli dopo e in tutt’altro contesto geografico, duplica, in un certo senso, la scelta di vita di Fabiola. Figlia di re e sposa infelice del merovingio Clotario I, Radegonda si votò alla scelta monastica come atto di emancipazione da un matrimonio imposto e odiato; anche per lei abbracciare la via della cura dei bisognosi rappresentò il canale naturale di una vocazione dello spirito. Nell’ospedale fondato al fine di assistere le donne prive di mezzi, si riproponeva la medesima chiamata a un impegno personale che non chiede sconti, non concede deleghe, anche nel servizio più umile. Ecco come il poeta Venanzio Fortunato ci consegna il ritratto della santa, colta nell’adempimento del suo lavoro: “Oltre al pasto quotidiano con cui rifocillava i poveri da lei soccorsi, sempre nei due giorni alterni di mercoledì e sabato, preparato un bagno, lei stessa cinta di un panno lavava le teste ai poveri, puliva qualsiasi cosa vi era, croste, scabie, tigna, non infastidendosi delle piaghe piene di pus; nel frattempo estraeva anche i vermi, puliva le putredini della pelle e lei stessa pettinava ad una ad una le teste che aveva lavato. Inoltre leniva le ulcere delle cicatrici che la pelle staccata aveva messo allo scoperto e che le unghie avevano irritato e calmava l’infezione della malattia con olio sparsovi sopra, secondo quanto dice il vangelo.” (Venanzio Fortunato, Vita Radegundis, XVII, 39-40).

La medicina delle sante mescolava in realtà conoscenze mediche acquisite dall’esperienza con un immaginario legato alla capacità di praticare esorcismi, veicolare guarigioni miracolose, riprendendo vecchi archetipi del paganesimo ancora vivissimi nella visione popolare, ma bisognosi di una nuova elaborazione che rispettasse il nuovo contesto religioso. L’insistenza sugli aspetti più ripugnanti del contatto con il malato descrive perfettamente il senso del percorso spirituale di questo approccio comune alle due sante. Esplora una modalità che nella storia personale di tante grandi mistiche si è spesso riproposta anche nel suo risvolto oscuro, quasi paradossale: un rapporto conflittuale con il proprio corpo e la propria salute, dove la malattia può divenire anche veicolo di espiazione del peccato e di mortificazione corporea, e come tale è talora invocata su di sé. Aspirazione alla sofferenza personale e capacità di guarigione possono fondersi in una sintesi non contraddittoria.