“Leonardo, per piacere, dimmi un paio di cose sulle foto!”
“Boh, io fotografo quello che mi attira, poi non lo so mica cosa ci vede la gente!”
“Vabbè, dammi almeno i titoli.”
“Accidenti, e chi c’ha pensato? E ora che mi invento?”

Ignoro i motivi per cui il fotografo fiorentino Leonardo Perugini riponga in me tanta fiducia nel commentare le sue foto. Mi ha chiesto di inventarmi i titoli delle immagini: pensavo di lasciare i numeri con cui mi sono arrivate – con un po’ di presunzione: avevo in mente il famosissimo n. 5 passato alla storia (sì, sto parlando del profumo).

Questa selezione di foto rappresenta uno dei tanti filoni figurativi di Leonardo; ma è una forzatura voler organizzare i suoi scatti per temi. Tendenzialmente non cerca temi, semmai situazioni o forme; nelle persone, come nelle nature morte o anche nei paesaggi, ricerca il semplice, l’invisibile\non visto, a volte l’umile o il borderline, però mai con occhio compassionevole: li trasfigura e trasforma, sul filo dell’ironia, in grandi personaggi o situazioni, solo attraverso una sapiente ricerca di tipo formale.

A prima vista, in questi scatti sembrerebbe combattuto da due pulsioni contrapposte: il rigore della forma e l’emozione pittorica. Immagino che parecchi artisti abbiano subito questa tensione interiore, come un aut-aut morale che non ammette indecisioni, quasi ne andasse della propria identità. Non è il caso di Leonardo, che tendenzialmente non si cura dei dilemmi morali, restando fedele al suo occhio e trovando, nei paesaggi che vede, altri paesaggi che soggiacciono a tutt’altre regole.

E quindi in un edificio moderno e scintillante (4) reperisce una composizione astratta compostissima, dalla geometria silenziosa e pulita, quasi segregata dal bianco e nero, che a me ricorda le irte linee di forza di certi Malevic monocromatici, tutto concentrato nel rigore compositivo.
Vorrei stiracchiare questo accostamento aggiungendo che il Nostro scatta con una precisione da certosino. Non è un fan del ‘cogliere l’impressione’ (ma neppure del Photoshop, sia chiaro), non scatta qualche foto sperando che di tre ne venga bene una, ne scatta una e quella sia. Così pure nella (13) la simmetria perfetta è cercata con maniacalità, e la gloriosa infilata di porte diventa – e ce lo indica la scelta precisa dell’inquadratura, sia in orizzontale che in verticale – un omaggio al rettangolo (non oso chiedergli se stesse pensando all’Omaggio al Quadrato di Josef Albers, ma dubito). Anche nella (16) la ricerca formale con linee di forza che puntano esattamente al centro sono la sua fissazione – ma non è un caso che per comporre un tale, maestoso geometrismo scelga un soggetto invisibile e umile, i pilastri di un pontile mangiati dall’umidità – che diventano nobili colonne.

Altre foto sono apparentemente meno formali, come le silenziose e disabitate 17 o la 14; oppure la 6, dove si dà spazio a cieli drammatici (mi vengono in mente quelli terribili di El Greco!), o a una solenne teoria di roulotte, il cui ordine è stato messo a soqquadro dall’alluvione (siamo ahimè in Maremma, alla cui recente tragedia Leonardo, insieme a un altro collega, ha dedicato un calendario fotografico per raccogliere fondi). L’occhio si sofferma un po’ dove gli pare, indugia nella pittoricità del cielo o nei segni della tragedia, quasi cederebbe alla commozione se non fosse immediatamente ripreso dal rigore compositivo: le potenti linee di forza in primo piano del rigagnolo, la serie senza fine delle roulotte e l’infilata di nubi discendenti conducono inesorabilmente l’occhio a destra sulla linea dell’orizzonte.

Poi ci sono paesaggi che l’alluvione ha apparentemente spogliato di qualsiasi bellezza o dignità, che Leonardo trasforma in drammatiche marine, come quelle di Salvator Rosa, di terribile bellezza. Sto pensando alla 10, la mia preferita: sia Leonardo che io ci abbiamo visto un mare in tempesta, con un relitto in primo piano, e tutti quei rametti bianchi stanno quasi a disegnare le increspature della superficie marina ancora inquieta (l’albero evidentemente non appoggia questa lettura, ma passiamo oltre). Il cielo, infine, direi canonico: per due terzi ancora minaccioso, un terzo apre alla tregua dopo la tempesta. Una metafora della speranza?

Testo di Francesca Bianchi