Nell’aprile del 1866 una compagnia di zuavi, circa un centinaio di uomini, si trovava tra le montagne dei monti Lepini, a sud di Roma, per un rastrellamento contro alcuni briganti che infestavano la zona. Il corpo degli zuavi era composto soprattutto da stranieri, francesi per la maggior parte, ma c’erano anche cinesi e ottomani.

In questa variopinta umanità si erano inseriti perfino cinque statunitensi, ex soldati dell’esercito degli Stati Confederati del Sud che avevano trovato asilo, dopo la dura sconfitta da parte degli Unionisti del Nord, sotto le insegne di Pio IX. Con loro c’era anche un certo John Watson, giovane, elegante, intelligente, che si era distinto anche in alcune operazioni contro i briganti, ottenendo l’encomio dei suoi ufficiali. Nessuno, in quel frangente, avrebbe mai immaginato di avere davanti l’uomo più ricercato d’America, il cui vero nome era John Surratt, accusato di aver partecipato, insieme a sua madre Mary, al complotto che l’anno precedente, la sera del 14 aprile, era sfociato nell’assassinio del presidente degli Stati Uniti, Abramo Lincoln. A distanza di centocinquant’anni ancora non si sa esattamente come si svolsero i fatti incriminati ovvero se furono il frutto dell’azione di alcuni disperati tra cui lo stesso Surratt, oppure questi ultimi fecero solo da manovalanza in una cospirazione ben più grande di loro. All’epoca si parlò di interessi finanziari della Gran Bretagna che la spingevano contro l’ economia del giovane Stato e che trovavano in Lincoln un duro ostacolo da superare; si evocarono anche mire territoriali non ben definite dei francesi e si scagliarono infine accuse durissime contro la Chiesa Cattolica, che, a, sentire le tesi dei Wasp (White Anglo-Saxon Protestant - Protestante di razza bianca), attraverso i gesuiti volevano fare della giovane nazione, specialmente degli Stati del Sud, un territorio “papista”. Lo stesso Pio IX, ricordiamo, aveva definito, in una lettera ufficiale, il generale Lee, capo dell’armata Confederata, “figlio dilettissimo”. Ma al di là di queste ipotesi, secondo la storiografia ufficiale, l’ideatore ed esecutore del complotto fu un attore di teatro di scarso talento, John Wilkes Booth, che, pur avendo una famiglia di tradizioni nordiste, dimostrò sempre accese simpatie per i Confederati del Sud, tanto da raccogliere intorno a sé, come un vero leader, gente decisa a farla finita con i nordisti e specialmente con il loro presidente, Abramo Lincoln.

Verso la fine della guerra
Dopo tre anni di guerra, la situazione, alla fine del 1864, volgeva verso la sicura sconfitta degli Stati del Sud e occorreva fare qualcosa per invertire un destino ormai segnato. Per Booth capovolgere la situazione era diventata un vera e propria ossessione. Se sul campo di battaglia la situazione era praticamente disperata, si poteva sempre progettare un atto di terrorismo dagli effetti clamorosi. Prima dell’omicidio, Booth aveva pensato di rapire, per due volte, lo stesso Lincoln per poi barattarne la liberazione con i soldati confederati che erano rinchiusi nei campi di concentramento nordisti. Sia il primo che un secondo piano di rapimento si rilevarono un vero fallimento. Le persone prescelte erano completamente inadatte a eseguire azioni del genere; inoltre mancavano di basi logistiche e di mezzi. Fortunatamente per loro, Lincoln in tutti e due i piani di sequestro mancò all’appuntamento per un soffio, evitando al gruppetto un’ impiccagione prematura. Solo uno di loro aveva i requisiti adatti per una missione di tale difficoltà, uno che in quegli anni lavorava nel controspionaggio sudista operante in Canada per controllare i movimenti nordisti lungo il fiume Potomac. Era un ragazzo di appena vent’anni, era il nostro John Surratt. Ben presto il giovane si dimostrò una persona valida. Oltre alla sua esperienza offrì ai congiurati l’opportunità di potersi incontrare in un luogo sicuro e che non sollevasse alcun sospetto: una piccola pensione gestita da sua madre Mary, proprio a Washington. Una curiosità, resa nota durante il processo contro i cospiratori: il controspionaggio unionista era perfettamente a conoscenza di Booth e dei suoi progetti contro il Presidente. Ciònonostante il futuro assassino di Lincoln fu lasciato libero di proseguire nel suo intento terroristico. Perché? È uno dei tanti misteri dell’attentato. Tutto fu messo a tacere e il capitano Gleason che per primo aveva denunciato queste gravi mancanze, morì improvvisamente in circostanze misteriose e la denuncia venne archiviata. Dunque, John Booth aveva la massima libertà di agire e l’occasione gli si presentò la sera del 14 aprile del 1865 al teatro Ford, dove Lincoln assisteva con la moglie a una prima teatrale, assolutamente indifeso e senza alcuna protezione, se si esclude una guardia del corpo notoriamente alcolizzata e nonostante che i segnali di pericolo contro di lui si erano fatti sempre più gravi e circostanziati. Anche questo aspetto della situazione non fu mai veramente approfondito. Il piano criminoso prevedeva, oltre all’omicidio di Lincoln, anche quello del vice presidente Johnson e del segretario di Stato Seward, tutti e due falliti miseramente. Ed ecco un altro mistero. Alcune ore prima dell'attentato, nello Stato di New York, il giornale locale Whig Press pubblicò la notizia dell'assassinio del presidente. Nello stesso momento tale notizia era di dominio pubblico a Manchester, nel New Hampshire e a Saint Joseph, nel Minnesota. Non si è mai spiegato come mai la notizia sia uscita con grande anticipo, perdipiù anche a oltre 2000 chilometri da Washington e nonostante il telegrafo fosse stato interrotto per alcune ore.

La fine di Booth
Intanto Booth, dopo aver portato a termine il suo crimine riuscì a fuggire dal teatro, ma nella corsa inciampò su delle corde e si ruppe una gamba: anche in questo caso nessuno, inspiegabilmente, tentò di fermarlo e l’uomo poté, così, dirigersi, insieme a un altro congiurato, David Harold, verso la Virginia e proseguire poi verso gli Stati del Sud per essere acclamato come un eroe. Ma la storia avrebbe preso di lì a poco tutt’altro cammino. Raggiunto un gruppo di soldati confederati sbandati, Booth, insieme a Herold, si fece riconoscere, ma, con sua grande meraviglia, quei soldati, invece di ringraziarlo, lo denunciarono alle forze di polizia del Nord. Con l’uccisione di Lincoln, infatti, era stato scavato un solco di odio difficile da superare. Ora per il Sud la sconfitta si trasformava, da parte del Nord, in una amara vendetta. Il 26 aprile i due fuggiaschi furono localizzati, nascosti in un fienile presso Port Royal, da un drappello di cavalleggeri. Intimata la resa, Herold si precipitò a braccia alzate fuori dal fienile verso i militari, mentre Booth volle vendere cara la pelle. Senza pensarci troppo i soldati diedero fuoco al fienile per farlo uscire e arrestarlo, quando, nella confusione dell’incendio, si sentirono improvvisamente degli spari. Booth fu colpito a morte con alcuni colpi alla nuca. A uccidere “ufficialmente” il ricercato fu il sergente Boston Corbett, armato di carabina. Ma, durante l’autopsia sul cadavere di Booth, furono rilevati solo colpi di revolver. Probabilmente qualcuno voleva che l’uomo non arrivasse vivo al processo per testimoniare. Anche questo si aggiunge ai tanti misteri che avvolsero gli avvenimenti di quei giorni. Intanto la caccia proseguiva anche per gli altri congiurati e, undici giorni dopo l’attentato, tutti i congiurati salvo uno erano assicurati alla giustizia. Tra essi c’era anche la madre di John Surratt, Mary, colpevole di aver dato loro ospitalità. Condannata a morte, fu anche la prima donna americana a salire sul patibolo. Il figlio John ebbe la fortuna di essere avvisato in tempo degli arresti e riuscì a scappare in Canada, dove aveva molti amici. Qui trovò una rete molto efficiente organizzata da alcuni sacerdoti per far scampare ex soldati sudisti alle vendette nordiste. È in questo frangente che il Vaticano, da sempre amico degli Stati del Sud a maggioranza cattolica rispetto a quelli del Nord a maggioranza protestante, suscitò gravi sospetti, mai sopiti, come abbiamo già accennato, di un suo coinvolgimento nella Guerra Civile. Un sospetto che continuò per molti decenni. Fu solo nel 1984, con la presidenza di Ronald Reagan, che si ebbe lo scambio ufficiale di ambasciatori tra la Santa Sede e gli Usa. Tra i cattolici canadesi che aiutarono i fuggiaschi sudisti c’era padre Charles Boucher, rettore del santuario di Saint Liboire. Il sacerdote ospitò Surratt per alcuni giorni, ma la situazione anche in Canada non era tranquilla per il fuggitivo. Si decise, allora, di farlo partire con un piroscafo alla volta dell’Inghilterra. Per organizzare la fuga fu aiutato da due ex agenti segreti che con lui avevano combattuto per gli Stati del Sud: Beverly Tucker e Edwin Lee, quest’ultimo figlio del famoso generale e capo dei Confederati. Finalmente ai primi di settembre Surratt arrivò a Liverpool, trovando una sistemazione provvisoria presso una canonica, ma anche questa terra cominciava a scottare: gli agenti americani erano già sulle sue tracce. Con l’aiuto di altri amici organizzò una fuga dall’Inghilterra verso l’Italia, con destinazione Roma, assistito sempre da padri gesuiti statunitensi. John Surratt arrivò nella città del Papa agli inizi del nuovo anno, trovando alloggio presso una piccola pensione, sotto il nome di John Watson, nel popolare rione di Borgo, a poca distanza dai Palazzi Apostolici. Ma la vita non era certo facile per il fuggitivo. L’assistenza che aveva ricevuto non poteva durare molto, né si potevano coinvolgere del suo caso le autorità vaticane: sarebbe scoppiato un caso diplomatico tra Santa Sede e governo Usa in un momento in cui, come sappiamo, le relazioni tra i due Stati non erano certo delle migliori. Doveva trovarsi un posto dove nascondersi in maniera sicura e anche guadagnare qualche soldo.

L'arruolamento negli zuavi
L’unica possibilità era arruolarsi nel corpo dei zuavi, una specie di legione straniera composta da uomini che venivano da ogni parte del mondo; a differenza di quella francese però i volontari non erano delinquenti che fuggivano dalle patrie galere, ma giovani che credevano negli ideali della Chiesa, così come altri loro coetanei, nello stesso periodo, si arruolavano nelle file garibaldine per l’avventura risorgimentale. Verso la metà di febbraio, John Surratt, alias Watson, si presentò dunque alla caserma degli zuavi, allora presso Porta Cavalleggeri, dove oggi sorge l’aula Paolo VI. La burocrazia per l’arruolamento fu molto superficiale, per non dire inesistente. Al giovane americano fu domandato il nome, ma senza chiedergli alcun documento né furono fatte delle ricerche su chi fosse questo cittadino del Maryland che si arruolava nell’esercito del Papa. Venne reclutato per un anno, nella Nona Compagnia del Pontificio Zuavi. Per Surratt si apriva così una nuova vita. Ed eccolo ora, un anno dopo gli eventi drammatici dell’attentato a Lincoln, tra le montagne dei Lepini, in una terra lontana e sconosciuta, a combattere uomini di cui non conosceva assolutamente nulla. Ma il destino, è il caso di dirlo, continuava ad perseguitare Surratt. Durante la permanenza nel distretto di Sezze venne riconosciuto da un suo vecchio conoscente, anche lui volontario negli zuavi, Henri Ste-Marie, un franco canadese dalla vita avventurosissima e non sempre onesta. Ste-Marie, da uomo scaltro, comprese subito che quella poteva essere l’occasione della sua vita. Tornato a Roma si recò dal console americano Rufus King per denunciare il Surratt. Ste-Marie non suscitò subito l’interesse del console, che, anzi, provò non poca riluttanza verso di lui, specialmente quando egli chiese per questo servizio ben 50 dollari per rifarsi una vita nelle Indie Occidentali. Una somma da pagare anche con una certa urgenza: fra pochi mesi, infatti, scadeva il periodo di leva e sarebbe rimasto disoccupato e senza un soldo. Come rappresentante del suo governo King però non poteva sottovalutare nulla, tanto più che Ste-Marie diceva di avere le prove concrete del coinvolgimento del Surratt nell’attentato a Lincoln. A metà luglio il diplomatico statunitense si rivolse alle autorità vaticane con la dichiarazione giurata del Ste-Marie che lo zuavo Watson in realtà era il ricercato John Surratt. Dopo alcuni giorni, l’8 agosto, il console fece sapere alle autorità di Washington che il segretario di Stato vaticano, il cardinale Antonelli, non era contrario all’arresto del ricercato.

L'arresto e il ritorno negli Usa
Passò ancora qualche mese in cui il governo americano chiedeva riscontri più sicuri e finalmente a novembre il cardinale Antonelli decise di fare arrestare Surratt che al momento era di stanza a Veroli con la sua Compagnia. Messo in allarme da alcuni movimenti sospetti, Surratt cominciò a preparare la fuga. E così avvenne. Quando i soldati lo stavano per arrestare, riuscì a fuggire, a gettarsi giù per un dirupo e far perdere le proprie tracce. In maniera a dir poco rischiosa raggiunse il Regno del Sud, ormai in mano agli italiani e, dopo aver dichiarato di essere disertore degli zuavi, riuscì ad arrivare a Napoli e ad imbarcarsi in maniera fortunosa su una nave alla volta di Alessandria d’Egitto. Ma il destino di Surratt era segnato. Nel porto egiziano trovò agenti americani che ormai lo avevano individuato. Da mesi, ormai, seguivano tutte le sue mosse, lo catturarono e infine lo portarono in America. Surratt, a differenza degli altri cospiratori, fu processato da un tribunale civile dello Stato del Maryland, grazie a una decisione di qualche mese prima della Corte Suprema che aveva dichiarato incostituzionale il processo di civili davanti ai tribunali militari, dando all’imputato la possibilità di una difesa certamente più valida. Surratt ammise di aver partecipato al complotto per rapire Lincoln, ma negò qualsiasi coinvolgimento nell’assassinio. Dopo due mesi di testimonianze dove si dimostrava che l’accusato il giorno dell’attentato era in un'altra città, Surratt fu rilasciato per non aver commesso il fatto, con una sentenza a dir poco sbalorditiva: in fondo aveva pur sempre partecipato al complotto. Su dodici giurati, solo quattro avevano votato per la sua colpevolezza. Si disse che era stato comprato il suo silenzio. Uscito per sempre da questa avventura, Surratt dopo alcuni lavori divenne insegnante alla St. Joseph Catholic School in Emmitsburg, nel suo Maryland. Nel 1872 sposò Maria Hunter da cui ebbe sette figli. Ormai anziano, era nato nel 1844, Surratt si ritirò a vita privata nella Baia di Old Line nel 1914. Due anni dopo Surratt moriva di polmonite a Baltimora, all’età di 72 anni. Con lui scompariva l’ultimo testimone di una tragedia che per molti anni avrebbe segnato gli Stati Uniti, ma i cui contorni, come abbiamo visto, restano ancora in buona parte misteriosi.