Ogni dea possiede un’antica identità floreale. L’immaginario botanico che pervade il mito lascia emergere attraverso le presenze simboliche tracce di antichi conflitti archetipici. Polarità in lotta compongono i bouquet che allietano gli altari dei templi: quelli sacri di Era e di Afrodite raccontano della naturale antipatia fra le due divinità. Era, la moglie legittima ma troppo spesso umiliata dalle scappatelle di un marito fedifrago, custode dei valori del matrimonio e della maternità; Afrodite, la dea alchemica che governa i desideri d’amore. Perfino il grande Zeus è preso al laccio da questi due aspetti del femminile: è lo sposo di Era ma è schiavo del potere di Afrodite!

Le erbe e i fiori consacrati a Era interpretano sul piano farmacologico le sue funzioni: curano le malattie femminili, sono utili nella sfera della fertilità o utilizzati nei disturbi e negli scompensi legati al ciclo mestruale. Così il salice, nel cui legno vennero scolpite le prime statue della dea, e dalla cui corteccia si ricavava un farmaco usato per contenere un flusso mestruale troppo abbondante; oppure l’aristolochia, che porta nel nome la vocazione alla salute femminile, in quanto è ottima (áriste) per il parto (locheía). Il fiore simbolico di questa dea è però il giglio, emblema della purezza dell’amore verginale e della castità del matrimonio; nacque, secondo il mito, dall’atto più materno, quello dell’allattamento. Ecco cosa raccontano gli autori antichi.

Zeus aveva generato Eracle con una donna mortale, l’incantevole Alcmena. Questa in realtà era già felicemente sposata con l’eroe Anfitrione, ma per il padre degli dèi il tradimento non era mai stato un intralcio ai suoi intendimenti: si era guadagnato le attenzioni di Alcmena con l’astuzia, assumendo per una notte le sembianze di suo marito, e aveva così potuto intrattenersi con lei senza destare sospetto. In quell’abbraccio rubato era stato concepito il grande Eracle. Era, scoperta la tresca, giurò odio eterno al bambino e si ripromise di perseguitare in ogni modo il frutto maledetto del tradimento coniugale: sarebbe riuscita a coronare questo impegno nel corso di molti anni, costringendo Eracle a sottoporsi a ripetute prove di obbedienza, le celebri dodici fatiche. Ma Zeus amava quel figlio, e desiderava per lui un futuro immortale: sapeva che lo avrebbe acquisito di diritto solo se avesse avuto Era come bàlia. Escogitò allora un inganno sottile: mentre la dea dormiva profondamente accostò il neonato al suo seno affinché ne poppasse il latte, viatico d’immortalità. Sperava inoltre che, dopo averlo nutrito, Era avrebbe attenuato la sua ira verso il bambino.

Eracle, dimostrando quella veemenza che sempre fu caratteristica della sua indole, succhiò dal capezzolo con tale avidità da strappare a Era un grido di dolore, che la destò. Compreso l’imbroglio, la dea allontanò con stizza il neonato da sé, ma un fiotto violento di latte sprizzò verso il cielo; e lì rimase, ancora oggi visibile, a comporre quella che chiamiamo Via Lattea, o Galassia (da “galax”, latte). Alcune gocce del liquido divino caddero anche al suolo, imbevendolo. Da queste, per incanto, germinò il primo giglio, splendido, latteo e puro. Si dice tuttavia che non appena Afrodite vide lo splendore e il candore virgineo del fiore lo ritenne troppo innocente per i suoi gusti e lo disprezzò. Fu poi presa da profonda invidia: non contenta di possedere la rosa, e timorosa che quella nuova ‘rosa di Era’ competesse in bellezza con la sua, per spregio volle a tutti i costi profanarla, e aggiunse tra i petali un grosso pistillo che ricordasse nella forma il fallo di un asino. Arguta rivincita quella della dea: l’ammonizione a non sottovalutare i richiami della sensualità!

Questo mito si impone innanzitutto per la dimensione cosmica, prima ancora che botanica. Non desta stupore che la creazione della Via Lattea sia ricondotta a un episodio di allattamento. Era è una dea che raccoglie il patrimonio spirituale di divinità femminili più arcaiche; fu scelta da Gea, la Madre Terra, per custodire l’albero sacro, il melo, e la sua è un’eredità che comporta grandi responsabilità e corrobora il legame antico con le capacità riproduttive assegnate al femminile. Vitalità, nutrimento e cura ne sono i pilastri imprescindibili. Il latte di una grande madre feconda cielo e terra, imprime il suo sigillo sui meccanismi celesti e sulla forza generativa del suolo. Il giglio, che germoglia da una tale linfa, diventa fiore totemico, farmaco e icona.

Ma è Afrodite la dea botanica per eccellenza; la tradizione le assegnava la Natura stessa come nutrice, e lei non concede che la sua supremazia venga minata. Nel suo giardino foglie e petali palpitano infondendo sopore; al suo passaggio lo spirito della vegetazione sussulta, e perfino la sabbia diviene feconda, generando sotto i suoi piedi meraviglie floreali. Erano moltissime le specie botaniche che portavano il suo nome: ombelico di Venere, sopracciglio di Venere, pettine di Venere. Il capelvenere è la più nota: ha fronde che ricadono abbondanti e leggere come le chiome della dea, impermeabili all’acqua come si dice fossero i suoi capelli subito dopo la nascita dalla spuma marina. Questa pianta costituiva, per analogia, un ingrediente importante per la bellezza delle chiome femminili, oltre che un rimedio contro la caduta dei capelli. Anche la verbena era una pianta venerea: panacea, afrodisiaco e filtro per magie d’amore, sembra anch’essa richiamare il nome di Venere nell’anagramma delle sue lettere. Tutte queste erbe, quasi fossero sante reliquie del suo corpo, elisir estratti da una linfa segreta, come doni terapeutici sono votate alla cosmetica, secondo i principi di simpatia della medicina magica, oppure rispondono a effetti afrodisiaci o concezionali.

L’intero universo simbolico di Afrodite ruota intorno all’immaginario olfattivo, ma è la rosa la sua epifania floreale. Nessun fiore deve competere con la rosa. Il contrasto con il giglio, poiché ricalca l’atavica rivalità tra Era e Afrodite, richiede di imporre i necessari distinguo; nella trama del mito, l’intervento della dea dell’amore è immediato e non privo di sarcasmo. Ma l’intento, forse, non fu soltanto spregiativo. Che il simbolo del casto amore coniugale sia ‘sporcato’ da un pistillo a forma di fallo, non sarà piuttosto un ammonimento per le giovani spose? Dopotutto l’amore, anche quello lecito del matrimonio, richiede un tocco di piccante licenziosità. In fondo è giusto che entrambe le dee siano state madrine di un tale portento vegetale; nel dissolvimento dei registri simbolici, hanno saputo interpretare, con la saggezza propria dei numi, la complessa ambivalenza del femminile.