Il medium: lo sciamano

Quando la malasorte piomba inesorabilmente sull’essere umano di turno facendolo ammalare o portando nuovi guai, nonostante l’influenza positiva degli amuleti, è il momento di ricorrere allo sciamano, chiamato nelle varie regioni balian, wadian, iaon bali o dukun. Esperto in stregoneria, corredato di pietre magiche e feticci e in comunicazione con l’intero olimpo delle divinità, lo sciamano è una specie di medium abitato dal suo spirito-guida sempre a cavallo tra la vita reale e lo stato di trance. Secondo la cosmologia locale gli spiriti dei trapassati vivono lungo le sponde dell’Alo Maloh, o fiume della morte, sulle vette domina la presenza del dio supremo Pesalong Luhan e della dea Bungan, mentre la terra dei comuni mortali prende il nome di Tanah Ilu. A fare da ponte tra il mondo divino e quello terreno c’è una zona definita Enta Berah, ovvero il paradiso degli otto fiumi, patria celeste dei Bali Dayung o “spiriti che cantano”, che vi conducono una vita molto simile a quella sulla terra. Grazie a questa posizione privilegiata nel regno dei trapassati, i Bali Dayung hanno il potere di entrare in contatto intimo con gli dei sovrastanti ma anche d’influenzare con la loro presenza il mondo dei vivi scegliendo degli intermediari, gli sciamani appunto, attraverso i quali, sotto spoglie umane, possono comunicare con gli esseri viventi. Nello stato di trance, il medium presta il suo corpo allo spirito di un Bali Dayung in modo che esso possa illuminare il richiedente di turno: si fanno diagnosi, si suggeriscono le cure, si interpretano i sogni, si legge il futuro, si consiglia e si dissuade.

I riti di guarigione

Al di là dell’aspetto folcloristico, i guaritori non sono dei ciarlatani ma spesso sono donne molto anziane e sagge con grande bagaglio d’esperienza, vaste conoscenze nel campo della medicina naturale e dosi massicce di sensibilità. La loro presenza è considerata insostituibile nei villaggi, per mantenere l’armonia mentre le loro capacità risultano impareggiabili, se non altro per l’influenza psicologica sul malato e per la mancanza di controindicazioni particolari per infusi, decotti, piume o perline. I tour operator organizzano spesso escursioni nell’interno promettendo fastose cerimonie di benvenuto e magari qualche rito sciamanico di guarigione, ma purtroppo si tratta solo di un “saggio” commerciale. Potete considerarvi fortunati invece se vagabondando nelle aree rurali dell’interno, piuttosto lontani dal brusio della civiltà, vi capiterà di assistere a un vero rito. Le cerimonie di solito avvengono al chiarore della luna nell’atmosfera intima della veranda di una longhouse. Il balian, accompagnato dagli strumenti a percussione, dai sampeh (grosso liuto) e dai canti del gruppo, si lascia trasportare dal ritmo delle danze (possono ballare da un’ora a 9 giorni!) e invoca l’aiuto del suo spirito guida, che non tarda ad arrivare. Improvvisamente lo stregone cade in trance, la divinità chiamata all’appello entra nel suo corpo e si rivolge ai presenti chiedendo il motivo per cui è stata disturbata dal regno dei cieli. Il gruppetto degli uomini più anziani pone le domande sul caso in questione e chiacchierando tra una danza e l’altra - perché i Dayung amano soprattutto ballare - si determinano i motivi psicologici o fisici che affliggono l’ammalato. E, se il problema è troppo grande, si può sempre ricorrere a un consulto e chiamare in causa altri Bali Dayung dell’Enta Berah!

Riti funebri

In Borneo esistono varie forme di venerazione degli antenati e di culto dei morti. I Kayan, i Kenyah, i Kajang, gli Ot Danum e molte altre tribù Dayak, per esempio, amavano costruire imponenti mausolei, o kulambu, come ultima dimora dei trapassati. Si tratta di singolari monumenti funerari simili a palafitte in legno, di solito aperti su quattro lati e sormontati da un tetto. La loro bellezza deriva dai colori, dalle figure intagliate, dai motivi ornamentali a spirale, uncino e triangolo tipici dell’arte indigena; lo scopo finale di queste opere d’arte è regalare una protezione simbolica al defunto e scacciare gli spiriti malvagi. Anche in questo campo, in seno a ogni tribù, si possono notare determinate differenze di costume: i Modang usano i kulambu per onorare i corpi degli appartenenti all’aristocrazia o, nel caso in cui il monumento funerario debba servire a tutto il villaggio, rispettano tassativamente i privilegi di casta collocando le fasce alte ai piani superiori.

Kenjah, Suruk e Ngaju ma anche frange di Kayan ed altre minoranze locali, sempre nel pieno rispetto della gerarchia sociale, preferiscono invece marcare nettamente la differenza collocando le famiglie più nobili in particolari strutture chiamate sandung, piazzate su massicce e alte colonne che sembrano dominare la plebe. Anche in questo caso è tutta una profusione di simboli e decori, in particolare serpenti, uccelli e draghi, prerogativa esclusiva delle classi elitarie. Per chi preferisce essere cremato si può optare per un lungo palo alla cui sommità verrà intagliata un’apertura adatta a ospitare la giara delle ceneri. E, per finire, nella rispettosa e classista società del Borneo, nei tempi antichi non mancava il sacrificio di uno schiavo che aveva il dovere di accompagnare e servire il proprio padrone anche nell’aldilà: il suo corpo veniva gettato nelle fondamenta del mausoleo o nel buco in cui si conficcava il palo. Tombe a parte, fino all’avvento del cristianesimo le cerimonie funebri furono piene di fascino.

Ancora oggi, molti Dayak hanno una visione dell’aldilà piuttosto semplicistica, come se il mondo reale, riflesso in uno specchio, ne creasse un altro identico in cui vivono i trapassati. Per arrivarci, dato che si tratta di un viaggio di tre giorni, occorre un mezzo di trasporto per cui, durante i funerali fa la sua comparsa la mitica “nave della morte”. Si tratta di bellissime canoe variopinte, decorate con intagli raffinati e motivi appropriati al tipo di decesso, sesso o classe sociale del defunto e persino accessoriate da mappe che vengono lasciate scivolare lungo il fiume, perché scendano a valle e simbolicamente raggiungano il paradiso. La conclusione della cerimonia è un’esplosione di canti e balli attorno alla bara; nel terzo millennio questi funerali elaborati sono più rari e sovente il tutto si riduce a una classica sepoltura nel cimitero del villaggio. In alternativa, alcune minoranze usano abbandonare i morti nella foresta in bare temporanee; una volta decomposti, le loro ossa vengono pulite e cremate per un secondo funerale e una tomba permanente.

Il culto Kaharingan

Molto prima dell’arrivo di indù, musulmani, colonizzatori, missionari o cristiani, i Dayak già professavano una loro religione chiamata Kaharingan, “colui che sostiene”, una particolare miscela di spiritualità, animismo, fiducia nel soprannaturale e nel potere di un Dio supremo. I credenti sostengono che il culto Kaharingan giunse nella regione assieme alle regole primordiali del popolo Dayak, portando sulla terra le leggi dei diritti umani che regolassero la società in armonia con il creatore e l’Universo. Nei secoli questa religione ha continuato a fare proseliti, attraverso la tradizione orale e le cerimonie tribali, e a diffondersi tra le tribù Dayak di tutte la province indonesiane: dal fiume Mahakam al fiume Kapuas, con oltre 300.000 adepti. Esiste una gerarchia di ministri del culto, ma ancora oggi non possiedono nessun testo canonico a cui fare riferimento; questo ha reso difficile il riconoscimento ufficiale del Kaharingan, velatamente ostacolato dal governo e dalla chiesa cristiana. In seguito a complicate vicissitudini storiche e grazie soprattutto alla determinante mediazione del maggiore dei paracadutisti Tjilik Riwut, un Dayak Ngaju di fede Kaharingan, nel 1983, per qualche similitudine e parallelismo con le religioni indiane è stata incorporata nella lista dei culti riconosciuti dal governo come “Indù Kaharingan”.

I suoi numerosi seguaci sono oggi liberi di esercitare le loro funzioni religiose a condizione che si avvisino le autorità locali ogniqualvolta è in programma un qualsiasi rito; in pratica non è sempre così facile registrare ogni cerimonia. Per le celebrazioni più importanti, note per la loro enfasi, come quella funebre (Tiwah), dove vengono sacrificati bufali e maiali, occorre attendere il permesso della polizia. Gli sciamani (balian o anche wadian) sono solitamente anziane donne capaci di curare o cadere in trance e raccontare le storie del villaggio. Molto praticata è pure la magia nera con un’ampia gamma di malefici mandati a distanza, che possono causare, nel giro di breve tempo, malattie e morte al destinatario. Molti Dayak hanno abbracciato la religione cristiana pur mantenendo una visione politeista.

Questo culto ha le proprie origini nella provincia del Kalimantan Tengah ed è predominate anche oltre il confine della Propinsi, sull’altopiano Tanjung, nei pressi della foresta di orchidee di Melak. Nella loro lenta risalita da Samarinda, scandita dal martellante rumore del motore, i kapal di linea (battelli) in circa 30 ore attraccano alla stazione fluviale di Melak, sulla sponda meridionale del Mahakam. Le potenti lance private riescono invece a coprire i 325 km del percorso in una sola giornata. Melak è un importante punto base per le escursioni nella regione, con sentieri e campi disseminati di raffigurazioni Kaharingan, come pali scolpiti da strane figure umane o casette di legno in miniatura con le offerte di cibo poste davanti alle abitazioni per allontanare lo spirito cattivo Patong. Tre chilometri dopo Lingang Bigung, sulla via per Tering, si trovano un paio di totem che indicano un importante luogo di raduno religioso nelle vicinanze. Da non perdere pure le tombe e i cimiteri, kuburan, che sorgono accanto ai villaggi.

Riti Kaharingan

Tradizioni e cultura del Kalimantan sono permeate dalle forti credenze religiose della popolazione Dayak e la fede nel Kaharingan traspare chiaramente nei costumi locali, nell’architettura, nelle folkloristiche feste di benvenuto, nei matrimoni, nella musica, nelle canzoni e nelle danze. Alcune cerimonie, tenute periodicamente dai rappresentanti religiosi, rappresentano un motivo di grande richiamo per visitatori e turisti, tra le più note si colloca certamente il Tiwah, la festa che conduce gli spiriti dalla morte al paradiso. Durante questo rituale funebre, a cui partecipano numerose le tribù Njaju e Ot Danum, le ossa dei defunti deposti in tombe provvisorie, vengono riesumate e pulite per cancellarne simbolicamente i peccati. Una volta purificate, le si colloca per la sepoltura definitiva in fastose tombe sandung, vere casette in miniatura innalzate su piedistalli di una o più colonne a seconda dello stato sociale o del tipo di decesso.

Le sandung sono in genere fatte con legno di ulin (“ironwood”), coperte da un tetto, intagliate, ornate da visi umani e mascelle di animali e quindi dipinte a colori vivacissimi. Su entrambi i lati della singolare bara, viene scavato un buco abbastanza profondo dove verranno collocate le offerte per il Dio della terra, Naga Galang Petak, e si ergeranno gli alti totem che raffigurano corpi umani o maschere grottesche dalle lunghe lingue e i denti aguzzi. La coreografia che circonda la cerimonia è avvincente, polli, mucche, maiali ma soprattutto bufali vengono sacrificati agli dei e posti su intricati tralicci in legno; i partecipanti e gli alti rappresentanti religiosi delle tribù si cimentano nelle danze propiziatorie, come la Tari Kanjan Patahu, spalmandosi a vicenda il viso di bianco in segno di amicizia, mentre musica, giochi e una folla colorata completano il quadro. Non da meno in quanto a fasto, vengono allestiti luculliani banchetti, si fanno grandi bevute, e per un mese intero si spende e spande senza remore. Al termine del Tiwah, le spese verranno suddivise fra le varie famiglie partecipanti che hanno riesumato i corpi dei familiari.

L’Ijambe è un’altra festa del tutto simile a cui partecipano i Dayak Ma’anyan e i Lawangan dei distretti del sud ed est Barito river; si differenzia in quanto le ossa dei morti vengono cremate e le loro ceneri raccolte dai familiari in piccole giare, tenute in casa per un certo tempo. È invece chiamata Wara la cerimonia per i defunti appartenenti alle tribù Tewoyan, Bentian, Bayan e Dusun insediate lungo le sponde del Barito. In questo caso i rappresentanti religiosi del Kaharingan fungono semplicemente da medium e in stato di trance indicano ai defunti la strada per il paradiso.

Potong Pantan è invece la cerimonia di benvenuto per gli ospiti onorari che visitano per la prima volta il Kalimantan centrale, nata per accogliere gli eroi o i sopravvissuti da guerre tribali. Durante questa celebrazione il capo-tribù accoglie i festeggiati dinanzi a un pantan, un pezzo di legno spesso decorato a colori sgargianti che serve per bloccare l’entrata di un cancello. All’ospite di turno si pongono una serie di domande sulla provenienza, lo scopo della visita, ecc., e una volta terminato il dialogo, egli riceve ufficialmente il permesso e l’onore di segare il pantan e scacciare così gli spiriti malvagi ricevendo il benvenuto nella comunità. A questo punto, in segno d’amicizia e per concludere la cerimonia, l’ospite viene caricato sulle spalle di un indigeno e trasportato per un breve tratto. Tra le belle e suggestive cerimonie del Kalimantan Tengah c’è infine il Belian, rito tipico di molte altre popolazioni del Borneo: avvolto da un’atmosfera mistica e il rullare di tamburi, lo stregone danza ed entra in una sorta di stato allucinatorio per collegarsi con le entità superiori e invitare il Dio supremo a curare l’ammalato, sdraiato a terra e circondato dai familiari nell’attesa della sospirata guarigione.

Come nei costumi e nelle cerimonie, anche l’arte, nelle sue infinite forme, è inscindibile dal Kaharingan. Le statue, elegantemente intagliate nel legno, spesso simboleggiano gli dei protettori, le canzoni li ringraziano o li evocano, le numerose e diverse danze hanno spesso un comune denominatore e un origine religiosa. Alcune sono state create allo scopo preciso di accompagnare le cerimonie rituali, come il Tari Manganyan ballato durante il Tiwah, altre sono impiegate dagli stregoni come supporto per raggiungere lo stato di trance, ma ci sono pure danze di guerra che mimano i combattimenti, simili a quelle dei Dayak Kenyah dell’Apo Kayan (regione del Borneo centrale), o le grandi performance comunitarie come il Giring-Giring o il Manasai, che coinvolgono tutti i presenti.

In sintesi, tutto questo infinito intreccio di astrazioni spesso difficili da comprendere si possono semplificare così: tutti i gruppi riconoscono una concezione dualista del cosmo, due distinte divinità, due parti, legate a un mondo superiore che è quello dell’aria, del cielo, quindi uccelli sacri, come falco e bucero, e in antitesi c’è il mondo inferiore con serpenti e dragoni. Il cielo rappresenta la forza vitale maschile e la terra quella femminile, ovvero la Madre Terra in cui semini e raccogli, simbolo di fertilità, di creazione. La maggior parte dei miti Dayak di origine cosmica ripetono in forme locali, con tratti specifici utilizzando i propri idoli, un tema che è riscontrabile in tutte le culture del Borneo. Il comune denominatore è la profonda simbiosi con la natura che, se deturpata, crea uno squilibrio per l’Uomo e per il suo habitat.