Le origini:

“Credere alla medicina sarebbe suprema follia, se 'non crederci' non fosse una follia peggiore, poiché da quell’accumularsi di errori è pur scaturita, alla lunga, qualche verità” (Proust, I Guermantes).

Panacea per tutti i mali, antidoto per eccellenza, placebo, talismano, rimedio contro la peste, farmaco costosissimo e d’élite, questo e molto altro è stata la theriaca, una delle più antiche preparazioni galeniche note ad essere prodotta su grande scala e capace di muovere intorno a sé un giro d’affari e di interessi economici e politici, come mai nessun altro farmaco nel mondo antico.

Le prime attestazione del nome “theriaca” compaiono in ambiente alessandrino nel IV–III sec. a.C. in riferimento a rimedi contro i morsi di animali velenosi, come il nome stesso therion (fiera, animale selvatico) indica. Lo stesso nome compare nelle Farmacopee ufficiali degli Stati europei fino alla fine del XIX secolo e ancora nel 1904, nel Bulletin de Thérapeutique, si asseriva che la teriaca “è dotata di virtù antisettiche e diuretiche”. Nell’edizione del 1908 del Codex Pharmaceutique francese la scomparsa della teriaca dagli elenchi ufficiali veniva commentata con la frase "dopo aver tenuto un così grande e lungo posto nella farmacia e nella terapeutica, essa lascia il mondo della storia per essere confinata in quello della leggenda”.

L’aura di bevanda infallibile, magica, “potente contro ogni male” che ha accompagnato tutto il corso della sua storia le deriva sin dagli inizi dalla sua “ideazione” collegata alla figura semileggendaria di Mitridate, re del Ponto e nemico giurato di Roma che, studioso appassionato di botanica tossicologica, fece dell’avvelenamento e della relativa immunizzazione una ricerca scientifica sperimentale, ma anche una potente arma politica (per regolare le successioni al potere) e terroristica (durante la conduzione delle guerre mitridatiche).

Questa’aura è rimasta quasi intatta nell’arco di duemila anni e, molto probabilmente, l’enorme fascino e attrattiva esercitati sull’immaginario collettivo sono stati resi ancora più potenti dall’inaccessibilità ai più di una panacea rara e costosa, ricercata e posseduta soprattutto dai potenti che la offrivano o la esponevano in preziosi contenitori, appositamente creati, come segno di potere.

Voci isolate di critica si alzarono qua e là nei confronti di un preparato che, allontanandosi dalla formula originale, andava di volta in volta, a seconda del medico, acquisendo o diminuendo ingredienti – dai 40 del Mithridathum originale secondo Plinio, agli oltre 100 ingredienti di alcune ricette di theriaca d’Oltralpe, ai soli 4 ingredienti della Theriaca diatesseron, la theriaca dei poveri – e che sembrava ad alcuni, perciò, solo un’accozzaglia di sostanze attive disparate, un’esercizio di mestiere. Plinio il vecchio nella sua Naturalis historia afferma al riguardo “Si dà il nome di teriaca ad una preparazione inventata per sfoggio. Vi entra una congerie sterminata di ingredienti; … come non vedervi un’ostentazione dell’arte, una mostruosa ciarlataneria?”.

Una tale longevità può essere compresa solo se, spostando l’attenzione dall’analisi delle proprietà terapeutiche di ogni singolo ingrediente, ci si accosta a questo preparato attraverso il suo valore simbolico, rinnovatosi di volta in volta per essere stato capace di raccogliere nelle varie epoche le speranze di chi, malato, individuava in esso l’unica possibilità di guarigione; il favore della Chiesa, che lo trasfigurò in simbolo dell’antidoto al veleno del peccato; l’interesse degli alchimisti che ne intrecciarono lo studio con la ricerca dell’Elixir Vitae, quella Medicina Universale, che avrebbe dovuto risolvere tutti i problemi del corpo e, perché no, anche quelli dello spirito.

Da rimedio empirico a “bevanda sacra”, dunque, la cui preparazione, complessa e rituale, individuava l’elemento catalizzatore dell’aspettativa unanime per la “bevanda magica” da un lato, e per la forza guaritrice del “farmaco”, dall’altro, tanto da far affermare che “rotta la tradizione del rito, alla fine del XVIII secolo, l'incanto della medicina sacra era definitivamente cessato”.

Ma che cosa era nella realtà questo farmaco? La teriaca era un rimedio composto appartenente alla categoria degli “elettuari”, medicamenti che venivano preparati mescolando fra di loro diverse sostanze in polvere, polpe o estratti di droghe, per lo più vegetali, impastati con sciroppo zuccherino o miele.

Una delle più antiche attestazioni di ricetta di “theriaca”, nota come Teriaca di Antioco il Grande (re di Siria dal 223 al 187 a.C.), si trova scolpita in versi su una lapide nel tempio del dio Asclepio di Coos dove era usanza, per così dire, depositare la ricetta di rimedi di utilità generale perché tutti potessero usufruirne, incidendole nel bronzo degli arredi o nel marmo. Come riportato da Plinio gli ingredienti includevano serpillo (specie di timo il cui olio era usato contro la flatulenza, come antisettico, antibiotico e digestivo), opopanace (gommoresina ricavate da piante della famiglia delle Ombrellifere), meo (Meum athamanticum usato in medicina antica per le proprietà toniche e diuretiche), semi di trifoglio, semi di anice (per corroborare lo stomaco disturbato e liberare dalle flatulenze), finocchio, ami e apio (l’apios nella medicina antica era usata mescolando semi e radici nel vino per provocare diuresi e disintossicazione), farina di ervo. Il tutto veniva lavorato in forma di pastiglie che, si affermava, costituivano un rimedio principe contro il veleno di vipere, tarantole, scorpioni ed altri rettili.

Nelle teriache più antiche comparivano spesso anche ingredienti provenienti dal mondo minerale e animale, come il sangue di tartaruga e capretto o il caglio di daino e lepre, tuttavia la componente vegetale restò preminente almeno fino alla formulazione di Andromaco che, forte del beneplacito di Galeno, venne trasmessa per tutto il Medioevo e il Rinascimento come ricetta unica e originale della theriaca e dunque “intoccabile”, come ogni altra parte della sua imponente concezione medica.

La composizione teriacale traeva, dunque, le sue origini dal fervido ambiente culturale alessandrino e dalla scuola medica empirica, più interessata alla soluzione pratica dei problemi dei malati, che non alla speculazione teorica sulle cause delle malattie. “Gli ammalati guariscono per i rimedi, non per l’eloquenza” era l’aforisma che ne raccoglieva lo spirito.

Una tale impostazione doveva risolversi naturalmente nello studio e nell’elaborazione di medicamenti che fossero efficaci mezzi di “rimozione” delle cause delle malattie, secondo i canoni terapeutici della teoria umorale in voga al tempo. Un apporto fondamentale della scuola empirica fu lo sviluppo dell’interesse per quella branca della farmacologia che prese il nome di tossicologia. Ne facevano parte anche alcuni sovrani ellenistici come Mitridate VI del Ponto e Attalo Filometore, degli Attalidi di Pergamo, su cui richiesta Nicandro di Colofone, medico, poeta e grammatico del II secolo a.C., redasse due componimenti in versi chiamati Theriaka e Alexipharmaka, i primi dei quali trattavano dei morsi di animali selvatici, serpenti e insetti velenosi, gli altri di veleni di origine vegetale e minerale, come anche delle precauzioni da prendere e dei rimedi per guarirne.

La teriaca nasce dunque come rimedio empirico per fronteggiare le difficoltà di una vita quotidiana difficile ed esposta a continui rischi, come quello rappresentato dal contatto con gli animali velenosi e, inizialmente, assume i connotati di antidoto specifico contro morsi e punture.

Il processo che di lì condusse alla sua trasformazione in panacea universale e farmaco eletto da imperatori ed élite culturali della Roma antica, prima, e delle corti rinascimentali, poi, e strumento politico ed economico per alcune città che ne monopolizzarono la produzione – fino a rivoluzionare i propri ordinamenti amministrativi per garantirne qualità e originalità – inizia con la figura leggendaria di Mitridate e l’intrecciarsi della sua storia personale con quella di Roma

Articolo di Annalisa Cantarini

In collaborazione con: www.abocamuseum.it