“Presto chiama Archigène, compra l’antidoto che usava Mitridate: se vuoi cogliere ancora qualche fico e sfogliare altre rose, urge procurarsi quel farmaco, che padri e re devono sorbire prima dei pasti” (Giovenale, Satire).

Se è vero che il grande re Mitridate del Ponto si era creato un antidoto ad personam che lo preservasse dai possiblili tentativi di avvelenamento e gli permettesse di portare a termine quel progetto, cui si sentiva chiamato da profezie e segni, di preservare la tradizione culturale greca e persiana di fronte all’espandersi in Oriente del dominio di Roma - accusata di uno spietato materialismo - a Roma la stessa esigenza non era meno sentita. Risale al periodo della dittatura di Silla la Lex cornelia de sicariis et veneficiis che doveva rimettere ordine in una società sconvolta da una lunga lotta civile spesso portata avanti con ogni mezzo, mentre più tardi una legge di Antonino Pio, evidentemente ancora alle prese con lo stesso problema, enunciava “E’ più grave uccidere un uomo con il veleno che con la spada”.

Molte morti sospette di personaggi appartenenti alla classe dirigente romana sono state attibuite ad avvelenamento: ricordiamo, solo per citare i più illustri, quella di Augusto, avvelenato dalla moglie Livia, quella del figlio di Catilina, probabilmente quella di Claudio, avvelenato da Agrippina con uno dei suoi piatti preferiti, funghi del tipo Amanita phalloides, e di Britannico per mano di Nerone. Essendo il cibo il veicolo principale della somministrazione del veleno, a quel tempo, gli “assaggiatori” a Roma divennero assai comunemente impiegati, tanto da organizzarsi addirittura in un collegio con a capo un procurator praegustatorum per la difesa dei “diritti” della categoria.

Il racconto delle fonti narra che l’antidoto di Mitridate giunse a Roma grazie a Pompeo che, frugando negli scrigni del grande re, ormai fuggitivo, trovò carte su carte con annotazioni degli esperimenti tossicologici effettuati con l’aiuto dei suoi collaboratori. Così come appare nella descrizione di Plinio (Nat His, XXIII 149) la formula che arrivò nelle mani dei romani si rivelò in realtà quella di un semplice e ingenuo composto “antidoto composto da 2 noci secche, altrettanti fichi e 20 foglie di ruta, il tutto pestato e amalgamato con l’aggiunta di un granello di sale; ... a chi avesse preso questo antidoto a digiuno, nessun veleno avrebbe nociuto durante la giornata”, ma ovviamente la formula era troppo elementare per essere quella dell’Antidoto degli antidoti. Ciò ha portato gli studiosi moderni a domandarsi se non si sia trattato piuttosto di una beffa organizzata dallo stesso Mitridate, esperto di depistaggi e a capo di una intelligence estremamente efficace, a danno dei Romani o di un antidoto generico, uno delle tante formule sperimentali delle quali probabilmente egli teneva il registro. Lo stesso Plinio in un altro passo si corregge (XXIX, 24) e, pur non riportando la formula per intero, ne cita ben 54 ingredienti, evidenziando probabilmente un processo, attuato dai medici romani, volto a legittimare l’efficacia di un rimedio che, forse, pur non essendo quello originale di Mitridate, avrebbe portato fama e ovviamente danaro nelle loro tasche e, soprattutto, avrebbe garantito la serenità dei propri imperatori.

Ad Andromaco, medico personale di Nerone, viene attribuita la paternità della formula più prestigiosa della theriaca, che verrà tramandata ai posteri con il suo nome. Egli portò a più di 70 il numero degli ingredienti, introducendo carne di vipera - in modo da rafforzare la funzionalità dell’antidoto - da aggiungere sotto forma di pastiglie dette trochisci, e aumentando la dose dell’oppio. La “gioiosa e calma galene”, come Andromaco chiamava la sua preparazione, doveva “riportare la calma del mare dopo la tempesta” nel corpo turbato dalla malattia.

Galeno ne diffuse la ricetta, composta in 87 distici, in due dei suoi scritti, Theriaca ad Pisonem e De antidotis, nei quali offrì anche una giustificazione teorica al suo uso e composizione. Spiegò l’introduzione della carne di vipera con il principio noto agli antichi che un veleno poteva essere antidoto a se stesso, mitigando la sua forza con l’associazione agli altri medicamenti. Attraverso la rivisitazione di Galeno la theriaca di Andromaco divenne La Theriaca per eccellenza e le si iniziarono a riconoscere proprietà terapeutiche più ampie. L’imperatore Marco Aurelio faceva regolare uso della Theriaca come antidoto ma soprattutto come ricostituente dal momento che era di salute cagionevole, specialmente quando si preparava ai lunghi viaggi verso i confini dell’impero a capo delle truppe, e la sua assiduità nell’assunzione del preparato dovette preoccupare a più riprese il medico Galeno se, come si legge dai suoi appunti, più volte fu costretto a regolare il dosaggio della quantità d’oppio e a intimare la sospensione stessa della terapia!

La composizione della theriaca di Andromaco prevedeva l’uso di sostanze per lo più vegetali, poche sostanze animali, come il castoreo, e minerali, quale il bitume di Giudea: galbano, rucola selvatica, calamo aromatico, terra sigillata (argilla medicinale dell’Isola di Lemno), semi di finocchio, genziana, aneto, assenzio, crescione, nardo indiano, storace liquido, pepe nero, oppio, cannella di Ceylon, rosa, cavolo rapa, aglio selvatico, radice e succo di liquirizia, mirra, zafferano, zenzero, rabarbaro officinale, agnocasto, origano, bacche di lauro, lavanda, incenso, citronella, radice di cappero, opopanace, acacia d’Egitto, anice verde, valeriana, cumino selvatico, gomma arabica, mile e vino erano fra gli ingredienti del preparato.

In un mortaio venivano ridotte in polvere le materie secche, in un altro venivano amalgamate le sostanze più pastose con il vino, per poi passare il tutto in un terzo recipiente assieme al miele e alle resine: miele e vino dovevano essere almeno il doppio in peso della totalità delle droghe perché dovevano conferire alla theriaca il suo aspetto tipico di pasta medicinale molle. Oltre agli ingredienti semplici entravano nella preparazione anche degli elementi composti chiamati_ trochisci, corrispondenti alle nostre moderne pastiglie. I trochisci di Scilla, o cipolla marina, erano ritenuti efficaci contro i dolori del corpo, la tosse cronicizzata, il vomito e il trabocco di fiele (anche se in realtà oggi sappiamo che il principio attivo contenuto è un cardiotonico e diuretico). I trocisci Edicroi erano invece formati mescolando fra di loro diverse droghe come, l'amaraco (Origanum majorana), l'aspalato (un legno odoroso nativo dell'isola di Rodi), il calamo _(Acorus verus), il costo vero (Menta romana), il phu pontico (Valeriana), il cinnamomo (cannella), l'erba Maro (Origano vulgaris), con la funzione di aromatizzare il preparato e nascondere eventuali sapori sgradevoli.

I trochisci di vipera avevano una preparazione più complessa, iniziando dalla scelta delle vipere da impiegare, che andavano catturate dopo l’uscita dal letargo, preferibilmente verso la fine della primavera, non incinte, ma femmine. La raccolta di vipere in certi periodi fu talmente massiccia che furono sterminate in molti luoghi e si dovette ricorrere all’importazione di vipere dall’Egitto con navi appositamente allestite e chiamate “viperaie”. Per la loro preparazione andavano tagliate testa e coda, tolta la pelle, e bolliti i tronchi in acqua salata con rametti di aneto, finché la carne si staccava dalla spina. La carne veniva poi pestata con pane ben cotto e di questa pasta si facevano rotelle o triangoli, i trochisci per l’appunto, che dovevano essere lasciati a essiccare lentamente al sole.

Le modalità di somministrazione e il dosaggio variavano a seconda della malattia, dell’età e del grado di debilitazione del paziente. Si assumeva stemperata nel vino, nel miele, nell’acqua o avvolta in foglia d’oro, in quantità variabile da una dramma (1,25 g circa) a mezza dramma, ma la condizione assolutamente necessaria alla somministrazione del preparato era che il corpo fosse preventivamente purgato, altrimenti il rimedio sarebbe stato peggiore del male. Per i trattamenti con la theriaca il periodo più favorevole era l’inverno, seguito dall’autunno e dalla primavera. Da evitare, a meno di una situazione particolarmente grave, l’estate, quando la forza disseccatrice del preparato sarebbe stata troppo intensificata dal calore esterno dell’ambiente.

Tutti gli ingredienti che partecipavano alla composizione della theriaca avevano delle proprietà terapeutiche individuali, ben note nell’antichità. Tuttavia secondo Galeno quando le droghe si mescolavano nel composto il risultato non era una semplice addizione delle proprietà di ognuna, bensì una nuova forza che si originava dalla sinergia di quegli ingredienti: questo secondo Galeno rappresentava il segreto della sua efficacia.

La theriaca dunque inizia ad affermarsi come rimedio terapeutico e profilattico. Nel IX secolo nel mondo arabo, che stava raccogliendo l’eredità greca nel campo scientifico per restituirla, poi, all’Occidente arricchita di contenuti e abilità tecniche, il medico e filosofo Hunayn bin Ishaq riconosceva che “la theriaca è il migliore dei rimedi composti. Guarisce dai veleni e dalle sostanze mortali, nonché dalla comparsa delle malattie. Protegge il corpo da tutto quello che proviene dall’esterno, ma anche da tutto ciò che nasce al suo interno. Agisce per anticipazione contro tutto ciò quello che potrebbe nascere nel corpo”.

La consacrazione della theriaca come panacea era ormai avvenuta: il “rimedio avvelenato” come è stato da alcuni definito, dopo un periodo di oblio quasi completo nel mondo occidentale riprese il posto d’onore fra i preparati la cui efficacia era ufficialmente riconosciuta dalle farmacopee rinascimentali e moderne, assumendo le più disparate valenze terapeutiche.

Articolo di Annalisa Cantarini

In collaborazione con: www.abocamuseum.it